Mestieri e società

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Rubrica: LA LAVANDAIA – La lavannêre

Completamente scomparso, è stato un mestiere tipicamente femminile: la lavandaia, a Gravina la lavannêre, donna particolarmente energica, forte, vigorosa, decisa. La lavannêra lavava la biancheria...

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Rubrica “Mestieri e società” a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

Completamente scomparso, è stato un mestiere tipicamente femminile: la lavandaia, a Gravina la lavannêre, donna particolarmente energica, forte, vigorosa, decisa. La lavannêra lavava la biancheria della sua famiglia e quella delle altre. Una figura preziosissima quando l’angelo della casa era ammalato e non poteva lavare i panni. A chi era più in alto nella società la lavandaia forniva un servizio che richiedeva discrezione e accuratezza. Lavare la biancheria intima e gli indumenti è stato sempre considerato un segno di civiltà, in quanto nelle interazioni umane fa colpo l’aspetto pulito e ordinato. La frequenza della lavata della biancheria dipendeva dallo stato sociale, dalle possibilità economiche e dall’educazione igienico- sanitaria della famiglia.

Per il lavaggio della biancheria il ceto popolare del paese individuava un luogo fisico, principalmente vicino ai piloni e alle fontane pubbliche. A Gravina, ad esempio, il posto indicato per lavare la biancheria era la funtêne de fôure, vicino ai due piloni pubblici sul ponte acquedotto Madonna della Stella, oppure accanto al pilone di Sant’Angelo sulla via per il borgo rurale di Dolcecanto.

La lavannêre girava casa per casa dei benestanti a raccogliere i panni sporchi e la mattina presto era lì davanti ai piloni: inginocchiata, con uàvete, tenèdde e strecature a disposizione. Stendeva poi, sull’erba pulita del costone della gravina, la biancheria appena lavata. Contro lo sporco più ostinato era necessario far bollire la biancheria e, a tale scopo, veniva preparata la lisciva, la ressì, con la cenere. La lisciva è una miscela minerale antichissima composta principalmente da carbonato di sodio. Veniva utilizzata per la realizzazione di saponi artigianali e trova ancora oggi impiego come detersivo bio per il bucato. Si faceva bollire l’acqua per il lavaggio dei capi più grandi e resistenti, come le lenzuola e le tovaglie; era utile per la sterilizzazione del bucato e per l’eliminazione dei parassiti come acari, cimici e pulci.
In passato c’era l’usanza di lavare la lana dei materassi e dei cuscini in dote agli sposi; le donne del vicinato aderivano con gioia al rito, una festa in vista del matrimonio. Il luogo di casa adibito al lavaggio della biancheria dei benestanti era il lavatoio, u lavannêire, posto nel sottotetto o nel sottoscala dei palazzi padronali. L’acqua proveniva dalle cisterne interrate alle quali si attingeva con un secchio di rame legato ad una corda di canapa o alla catena di metallo, u sicchje. Quando il secchio cadeva in fondo alla cisterna – perché poteva succedere – non c’erano problemi per recuperarlo. Venivano utilizzate le crûocche, uno speciale attrezzo di tre o quattro ganci (uncini) su base comune in ferro battuto. Legato ad una fune, veniva calato nella cisterna per ripescare il secchio affondato.

Il mestiere di lavandaia veniva svolto principalmente da donne di fiducia della padrona di casa. La biancheria sporca veniva accumulata e il lavaggio effettuato ogni settimana e, forse, il popolo vi provvedeva ogni quindici giorni. A mo’ di detersivo si utilizzavano la cenere e il sapone, in seguito si fece uso dalla saponina di origine vegetale, dotata della proprietà di formare con l’acqua una soluzione che, sbattuta, schiumeggiava abbondantemente. Si sceglievano le giornate soleggiate per lavare i panni in modo tale che al sole si asciugavano in poco tempo. La biancheria veniva stesa sulla fune assicurata all’estremità con punti di aggancio e sorretta da una forcella, la fércedde. Se la biancheria era ancora umida veniva sistemata in casa tra due fusti di sedie, e alcune volte ad asciugare sul braciere, la frasciêre, specie d’inverno. Spesso era fondamentale l’ausilio di una seconda donna sia quando il bucato veniva steso sulla fune, sia quando, ormai asciutto, doveva essere ritirato dalla fune e piegato, “a chjechè”. Altrettanto laboriosa era la fase successiva della stiratura e della riposizione dei panni nelle ceste di vimini. Così la biancheria venivano consegnata alle massaie le quali provvedevano a sistemarla nel mobilio di casa: u cômmò, la casce a devêne, la colunnétte, l’armàdie. La lavannêre si portava dietro i propri bambini molto piccoli, che spesso piangevano per fame o per sonno. Senza trascurare il lavoro si cercava di distrarli dal pianto intonando delle filastrocche.

Le lavandaie si spezzavano la schiena, stando ore e ore chine sui panni da lavare e le loro mani si facevano tutte raggrinzite per la lunga permanenza in acqua. Si usavano le pietre per strofinare meglio i panni. Nessuna pietra era perfetta, ma chi attribuiva alla mancata individuazione di un sasso idoneo l’impossibilità di lavare il bucato stava cercando evidentemente una scusa per delegare il compito ad altri. Questa era da considerarsi una cattiva lavandaia.

Il lavatoio era uno dei luoghi di aggregazione sociale. In quei luoghi le donne potevano andare senza essere accompagnate; si scambiavano ricette, consigli e pettegolezzi; partecipavano alle gioie e alle disgrazie delle altre donne; condividevano esperienze e vicissitudini delle compagne di lavoro; cantavano canzoni nostalgiche e stornelli satirici; raccontavano aneddoti appresi dai propri nonni; mostravano interesse alle esperienze particolari di vita familiare; ridevano e talvolta litigavano; riflettevano sulle disgrazie e sulle condizioni sociali di tante famiglie. Alcune ragazze erano brave ad intonare i canti durante il lavoro. Un canto popolare che veniva spesso proposto era la Calabrisella ci raccontano alcune nonne: Nina ti vitti all’acqua chi lavavi… E lu me cori si jinchiu d’amuri.

L’avvento degli elettrodomestici ha decisamente agevolato il compito delle massaie, però ci ha privati di alcune consuetudini che appartengono ormai alla memoria del passato. Nel tempo questo compito si è sempre più perfezionato e industrializzato, con la diffusione di numerose lavanderie dotate di macchine all’avanguardia, per lavare, asciugare e stirare. Da qualche decennio sono comparse numerose lavanderie self service che consentono un utilizzo a buon mercato. In giro per l’Europa troviamo diversi musei dedicati alle lavandaie: i migliori li troviamo in Belgio. A Trieste segnaliamo il museo delle lavandaie “Il lavatoio di San Giacomo”: l’impegno degli scout di Trieste è stato quello di far rivivere questa parte di storia e di vita cittadina a molti giovani per mantenerla sempre viva nei ricordi sia di chi l’ha vissuta in modo diretto e sia di chi l’ha sentita solamente raccontare. Un luogo di aggregazione collettiva con eventi di vario genere rivolti alla cittadinanza. Progetti ambiziosi e di grande prospettiva di recupero dei lavatoi pubblici sono all’attenzione di molte comunità italiane per valorizzare e conservare le nostre radici che passano anche attraverso i panni sporchi. Le lavandaie di mestiere erano per lo più donne sole; madri nubili, zitelle, vedove di guerra o del lavoro o anche appartenenti a famiglie in cui il reddito era molto scarso; per la sopravvivenza occorreva l’integrazione di un’ulteriore risorsa economica. Nei tempi andati in ogni abitazione fare il bucato a mano era un rituale che coinvolgeva le donne di casa, principalmente le più giovani, sia nubili che ammogliate; era un’attività molto impegnativa, una vera fatica, una tortura alla schiena tant’è che un vecchio detto diceva: È meglio fare un figlio che una lavata di panni.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo – Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA’ nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine da sito web senza diritti di copyright.