“Quando amore non mi riconoscerai”
L’Alzheimer, l’amore, raccontati da Vincenzo Di Mattia.
domenica 26 ottobre 2014
13.07
Presentato ieri a Gravina, "Quando amore non mi riconoscerai" di Vincenzo Di Mattia. Racconto di una malattia e di un grande amore, quello per la moglie Silvana Spirito malata di Alzheimer. Gravinese, emigrato a Roma con una lunga carriera nell'emittente televisiva nazionale come sceneggiatore, scrittore e autore teatrale. Di Mattia torna a casa per chiudere "un cerchio e aprirne uno nuovo", così come commenta Francesca, figlia dello scrittore e autrice della postfazione del libro.
La sala Episcopio Giovanni Paolo II è gremita, si parla di una malattia subdola, ladra di ricordi e mietitrice di personalità spezzate. "Solo a Gravina ci sono 500 persone malate di Alzheimer" illustra Filippo Tarantino, presidente II.S.F.S. "G. Tarantino", "il malato di Alzheimer ogni giorno ha una identità nuova, la coscienza si scolora, nascono tanti interrogativi. Com'è possibile che questa donna si sia ridotta al minimo? La comunità si stringe e condivide lo spaesamento dei nostri concittadini".
In bilico tra la vita di sempre e una nuova identità. Quella vecchia risucchiata nel buco nero della malattia che riconsegna "rossetti nel frigorifero, calze nel piatto, arance nella biancheria, domande infantili, scambio del sole con la luna, Venere nell'Ave Maria, Gesù in Catullo", fraseggi senza logica riempiti di un senso diverso ed emozioni contrastanti. "Possiamo paragonare questa malattia ad una stanza buia, non sai che fare e non sai come uscirne", spiega Rosa Lapolla, psicologa dell'associazione Alzheimer Bari presso lo sportello di Gravina, "si provano tante emozioni forti. Rabbia, imbarazzo, senso di colpa, paura di non fare abbastanza, drasticamente cambia la quotidianità di chi sta accanto al malato". "Bisogna accettare e perdonarsi" aggiunge, "cercare nuovi modi di stare in famiglia". "Il nostro sportello offre un supporto ai parenti dei malati, nel centro diurno che nascerà invece ospiteremo in un ambiente famigliare i pazienti, cercando di restituire dignità alla loro vita".
"Il malato è testimone inconsapevole di ciò che gli accade, questa è una malattia che colpisce i famigliari per questo è fondamentale ritagliarsi anche solo un'ora per disporre delle proprie cose", chiosa Simone Tenerelli, geriatra-vulnologo gravinese. "Viene colpita la comunicazione, la dignità della persona che nega il contatto fisico, rifiuta l'igiene personale. Non ci sono medicine che possano funzionare a mio parere, l'unica è l'amore - afferma il medico e rivolgendosi a Di Mattia - Vincenzo è un viaggiatore alla ricerca di un perché e Silvana è servita a perfezionare il rapporto tra padre e figlia".
Il "progetto famigliare" è una miscela di ricordi, speranze, rassegnazione al male che non si può sconfiggere. "Ho ritrovato il contatto con le emozioni che mi facevano paura", la voce dolce e il viso sorridente di Francesca Di Mattia incorniciano la testimonianza di una figlia che reinventa il legame con la madre: "si tratta di un rapporto sfuggente, discorsi che iniziano ma non finiscono, frasi smozzicate e allora ti chiedi, che cosa è stato delle letture e di tutti i discorsi fatti insieme, del nostro rapporto? Resta il patrimonio di tutto questo. Ho dovuto trovare un codice sovversivo, rivoluzionario e attraverso questo ho recuperato l'eredità famigliare. Con papà ogni giorno ci raccontiamo delle piccole perle, di cose che ha detto o ha fatto quando andiamo a trovarla che ci possano consolare". E conclude: "Dovete parlare. Non abbiate paura di farlo, vi aiuta a non sentirvi soli perché di questa malattia non si parla abbastanza".
Accanto a lei, il padre che inizialmente si perde nel racconto della sua vita gravinese, la guerra, i giochi con le palle di carta ed il lavoro in Rai. Ad un tratto serra il pugno e lo batte sul banco: "La malattia è il male". Di Mattia ne descrive il decorso, le badanti, la decisione sofferta di affidare la moglie alle cure di un istituto specializzato e la vita malinconica nella casa romana, circondato dagli oggetti appartenuti a lei. "La vigilia della partenza è stato terribile. E' stato un bene. La casa è vuota ma piena di tutte le sue cose che vorrebbero ancora vivere. Penso a volte di darle via ma poi mi dico, e se tornasse? Silvana adesso sta bene, il suo sorriso non è pienezza di malinconia, la casa è vuota ma lei c'è. E se lei avesse raggiunto una tale pace, quasi da dire io chiudo con il resto del mondo, resto da sola e lascio che gli altri si occupino di me . Tutto questo può essere un artificio. Io questa malattia la vivo così".
La sala Episcopio Giovanni Paolo II è gremita, si parla di una malattia subdola, ladra di ricordi e mietitrice di personalità spezzate. "Solo a Gravina ci sono 500 persone malate di Alzheimer" illustra Filippo Tarantino, presidente II.S.F.S. "G. Tarantino", "il malato di Alzheimer ogni giorno ha una identità nuova, la coscienza si scolora, nascono tanti interrogativi. Com'è possibile che questa donna si sia ridotta al minimo? La comunità si stringe e condivide lo spaesamento dei nostri concittadini".
In bilico tra la vita di sempre e una nuova identità. Quella vecchia risucchiata nel buco nero della malattia che riconsegna "rossetti nel frigorifero, calze nel piatto, arance nella biancheria, domande infantili, scambio del sole con la luna, Venere nell'Ave Maria, Gesù in Catullo", fraseggi senza logica riempiti di un senso diverso ed emozioni contrastanti. "Possiamo paragonare questa malattia ad una stanza buia, non sai che fare e non sai come uscirne", spiega Rosa Lapolla, psicologa dell'associazione Alzheimer Bari presso lo sportello di Gravina, "si provano tante emozioni forti. Rabbia, imbarazzo, senso di colpa, paura di non fare abbastanza, drasticamente cambia la quotidianità di chi sta accanto al malato". "Bisogna accettare e perdonarsi" aggiunge, "cercare nuovi modi di stare in famiglia". "Il nostro sportello offre un supporto ai parenti dei malati, nel centro diurno che nascerà invece ospiteremo in un ambiente famigliare i pazienti, cercando di restituire dignità alla loro vita".
"Il malato è testimone inconsapevole di ciò che gli accade, questa è una malattia che colpisce i famigliari per questo è fondamentale ritagliarsi anche solo un'ora per disporre delle proprie cose", chiosa Simone Tenerelli, geriatra-vulnologo gravinese. "Viene colpita la comunicazione, la dignità della persona che nega il contatto fisico, rifiuta l'igiene personale. Non ci sono medicine che possano funzionare a mio parere, l'unica è l'amore - afferma il medico e rivolgendosi a Di Mattia - Vincenzo è un viaggiatore alla ricerca di un perché e Silvana è servita a perfezionare il rapporto tra padre e figlia".
Il "progetto famigliare" è una miscela di ricordi, speranze, rassegnazione al male che non si può sconfiggere. "Ho ritrovato il contatto con le emozioni che mi facevano paura", la voce dolce e il viso sorridente di Francesca Di Mattia incorniciano la testimonianza di una figlia che reinventa il legame con la madre: "si tratta di un rapporto sfuggente, discorsi che iniziano ma non finiscono, frasi smozzicate e allora ti chiedi, che cosa è stato delle letture e di tutti i discorsi fatti insieme, del nostro rapporto? Resta il patrimonio di tutto questo. Ho dovuto trovare un codice sovversivo, rivoluzionario e attraverso questo ho recuperato l'eredità famigliare. Con papà ogni giorno ci raccontiamo delle piccole perle, di cose che ha detto o ha fatto quando andiamo a trovarla che ci possano consolare". E conclude: "Dovete parlare. Non abbiate paura di farlo, vi aiuta a non sentirvi soli perché di questa malattia non si parla abbastanza".
Accanto a lei, il padre che inizialmente si perde nel racconto della sua vita gravinese, la guerra, i giochi con le palle di carta ed il lavoro in Rai. Ad un tratto serra il pugno e lo batte sul banco: "La malattia è il male". Di Mattia ne descrive il decorso, le badanti, la decisione sofferta di affidare la moglie alle cure di un istituto specializzato e la vita malinconica nella casa romana, circondato dagli oggetti appartenuti a lei. "La vigilia della partenza è stato terribile. E' stato un bene. La casa è vuota ma piena di tutte le sue cose che vorrebbero ancora vivere. Penso a volte di darle via ma poi mi dico, e se tornasse? Silvana adesso sta bene, il suo sorriso non è pienezza di malinconia, la casa è vuota ma lei c'è. E se lei avesse raggiunto una tale pace, quasi da dire io chiudo con il resto del mondo, resto da sola e lascio che gli altri si occupino di me . Tutto questo può essere un artificio. Io questa malattia la vivo così".