Cronaca
Confermata in Appello la sentenza di primo grado: 21 anni a Giovanni Pupillo
Il giovane accusato dell’omicidio della studentessa Maria Pia Labianca
Gravina - sabato 26 novembre 2011
10.46
È già sera quando in aula, annunciati dal trillo di un campanello, entrano i giudici. A leggere la sentenza è il presidente della Corte d'Appello di Bari, Raffaele Di Venosa. Poche parole, per confermare il verdetto di primo grado: Giovanni Pupillo va condannato a 21 anni di reclusione perché riconosciuto colpevole, anche in secondo grado, dell'omicidio della studentessa universitaria Maria Pia Labianca.
Non c'è spazio, dunque, per l'aumento di pena richiesto nella sua requisitoria dal procuratore generale Vincenzo Ardito, che aveva auspicato il disconoscimento delle attenuanti generiche in favore di una condanna a pena più grave. Porte chiuse anche alle ragioni della difesa, rappresentata dall'avvocato Francesco Paolo Sisto. Tutto resta come prima.
Dolore compreso. Quello che Gravina vive dal 24 febbraio del 1999. Inizia quel giorno la tragedia che sconvolge la città: Maria Pia Labianca torna a casa dall'università di Padova, dove studia psicologia, per trascorrere qualche giorno in famiglia. Si fa sera: la fanciulla esce di casa. Svanisce nel nulla. E a nulla portano le disperate ricerche di amici, familiari e forze dell'ordine. Tre giorni più tardi il suo esile corpo senza vita viene ritrovato da un contadino all'interno di un casolare di campagna, in contrada Guardialto piccolo. La scena è raccapricciante: la ragazza è nuda, pancia in su e con le braccia aperte in segno di croce, le caviglie legate da una sciarpa ed il torace segnato da una coltellata. Sulle prime si pensa ad un rito satanico, ma da subito gli investigatori scartano l'ipotesi, ritenuta frutto di un tentativo di depistaggio: la morte, accerterà l'autopsia, è infatti sopraggiunta per asfissia da strangolamento. I riflettori si accendono sull'ex fidanzato della donna, il suo compaesano all'epoca ventitreenne Giovanni Pupillo. Nel corso di un interrogatorio, il giovane confessa. Ma appena una settimana dopo, da dietro le sbarre arriva il ripensamento. Con la ritrattazione delle dichiarazioni autoaccusatorie e la rivendicazione dell'estraneità ai fatti. L'inchiesta torna così in mano agli inquirenti, che alla fine tirano le somme chiedendo il rinvio a giudizio del ventitreenne gravinese. Accusato di un omicidio volontario maturato al culmine, secondo la Procura, di una violenta discussione accesa da motivi passionali.
La famiglia della vittima, assistita dall'avvocato Rino Vendola, si costituisce parte civile. Il processo di primo grado, che si apre nel maggio del 2000, si porta via sette anni e si conclude con una condanna a 21 anni di reclusione. Troppo blanda, secondo la Procura. Troppo severa, per la difesa. La battaglia si sposta allora in Appello. Quattro anni dopo, infine, la nuova sentenza. Certo ancora non l'ultima di una storia le cui ferite resteranno probabilmente aperte e sanguinanti anche quando su di essa sarà sceso il silenzio della giustizia e degli uomini.
Non c'è spazio, dunque, per l'aumento di pena richiesto nella sua requisitoria dal procuratore generale Vincenzo Ardito, che aveva auspicato il disconoscimento delle attenuanti generiche in favore di una condanna a pena più grave. Porte chiuse anche alle ragioni della difesa, rappresentata dall'avvocato Francesco Paolo Sisto. Tutto resta come prima.
Dolore compreso. Quello che Gravina vive dal 24 febbraio del 1999. Inizia quel giorno la tragedia che sconvolge la città: Maria Pia Labianca torna a casa dall'università di Padova, dove studia psicologia, per trascorrere qualche giorno in famiglia. Si fa sera: la fanciulla esce di casa. Svanisce nel nulla. E a nulla portano le disperate ricerche di amici, familiari e forze dell'ordine. Tre giorni più tardi il suo esile corpo senza vita viene ritrovato da un contadino all'interno di un casolare di campagna, in contrada Guardialto piccolo. La scena è raccapricciante: la ragazza è nuda, pancia in su e con le braccia aperte in segno di croce, le caviglie legate da una sciarpa ed il torace segnato da una coltellata. Sulle prime si pensa ad un rito satanico, ma da subito gli investigatori scartano l'ipotesi, ritenuta frutto di un tentativo di depistaggio: la morte, accerterà l'autopsia, è infatti sopraggiunta per asfissia da strangolamento. I riflettori si accendono sull'ex fidanzato della donna, il suo compaesano all'epoca ventitreenne Giovanni Pupillo. Nel corso di un interrogatorio, il giovane confessa. Ma appena una settimana dopo, da dietro le sbarre arriva il ripensamento. Con la ritrattazione delle dichiarazioni autoaccusatorie e la rivendicazione dell'estraneità ai fatti. L'inchiesta torna così in mano agli inquirenti, che alla fine tirano le somme chiedendo il rinvio a giudizio del ventitreenne gravinese. Accusato di un omicidio volontario maturato al culmine, secondo la Procura, di una violenta discussione accesa da motivi passionali.
La famiglia della vittima, assistita dall'avvocato Rino Vendola, si costituisce parte civile. Il processo di primo grado, che si apre nel maggio del 2000, si porta via sette anni e si conclude con una condanna a 21 anni di reclusione. Troppo blanda, secondo la Procura. Troppo severa, per la difesa. La battaglia si sposta allora in Appello. Quattro anni dopo, infine, la nuova sentenza. Certo ancora non l'ultima di una storia le cui ferite resteranno probabilmente aperte e sanguinanti anche quando su di essa sarà sceso il silenzio della giustizia e degli uomini.