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Festa della donna: viaggio nella storia gravinese
GravinaLife festeggia l'8 marzo con le eroine del passato.
Gravina - domenica 8 marzo 2015
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Sono personaggi dalle tinte forti quelli che riemergono dal passato, affatto sbiaditi dalla patina di maschilismo di una società che le voleva relegate alla cucina. Il "sesso debole" che non versa lacrime, ma stringe i denti. Donne e Madonne gravinesi: devote alla famiglia, alla religione ed alla carità, padrone della gestione della casa e degli affari nonché politicamente impegnate.
Condannate a morte ed all'oblio, sopravvivono negli stralci dei libri di storia. "Rosa Brunetti era una donna di grande spirito e di non comune sapere", la descrive così, Domenico Nardone. Giacobina impegnata nei moti popolari del 1799 e militante nella "Vendita Carbonara" fu imprigionata, poi condannata a morte e destinata ad essere dimenticata. Probabilmente, aveva solo ventisette anni.
Baciata da Dio invece, è stata la contessa Giovanna Frangipane della Tolfa, madre di un papa, Benedetto XIII°, moglie del duca Ferdinando Orsini e infine, badessa del conservatorio di Santa Maria del Piede. Rimasta vedova, si occupò di difendere il ducato dalla minaccia altamurana, finanziando pure opere di costruzione, ampliamento e ristrutturazione di molte chiese gravinesi e di una piccola fabbrica di ceramiche nel rione Fornaci, destinando la sua dote in beneficenza per gli indigenti. Dati importanti per comprendere una vicenda intrisa di caparbietà, che la spinse nel 1681 a chiudersi in clausura, con il nome di suor "Maria Battista dello Spirito Santo", rinunciando così ad ogni titolo nobiliare.
Per intercettare un'altra storia di carità e devozione bisogna guardare più in basso, nell'albero genealogico della famiglia Orsini. Teresa Orsini Doria Pamphilj Landi, riconosciuta come "Serva di Dio", viene riportata all'onore delle cronache del tempo per le sue "opere caritatevoli". Fondò a Roma l'"Unione delle pie donne" o "Dame di carità", offrendo così assistenza negli ospedali. Un intervento mirato, lì dove mancavano norme igieniche e spesso cure efficaci per i più poveri. Nel 1821 creò l'ordine delle "Suore ospedaliere della misericordia".
E' negli atti notarili invece, che rintracciamo le esistenze delle donne del popolo. Architetti di una comunità di lavoratrici, specializzate per lo più nel lavoro nei campi, di ricamo e di cucito. Difficile che potessero imporre la propria arte all'esterno delle mura domestiche, il mondo reale, almeno fino agli inizi del XX° secolo, si coniuga ancora al maschile. E per quanto riguarda l'istruzione, al posto del pennino impugnano l'ago e con il filo ricamano a tombolo il proprio sapere che diventerà una vera e propria professione, solo a partire dal 1920. Donne che con questa attività hanno potuto sposarsi, portando in dote abiti cuciti a mano, sostenendo con i loro lavoro i propri coniugi. "E' il caso di Elvira Maiorana, cucitrice, che nel 1903 sposa una guardia del Regio Tratturo" - racconta Marisa D'Agostino, in "Società, costumi e moda" - "e grazie ai proventi del suo lavoro sostiene suo marito nell'acquisto dell'uniforme". La volontà di raggiungere l'indipendenza è testimoniata da un altro atto nel quale, "Domenica Morlino, riceve in dote attrezzi rurali a motivo che essa intende menare per conto suo una piccola industria agraria". Sono ancora gli antichi documenti risalenti alla seconda metà del 1800, a testimoniare il fatto che le donne volevano tutelarsi dagli uomini, ritagliandosi una sorta di bolla indipendente entro la quale racchiudere i propri oggetti, fino ad arrivare al divorzio, pratica non proprio sconosciuta agli inizi del 1900.
Anche l'antico nome di una strada, l'attuale via D'Ales, era titolata ad una donna e non si sa ancora se fosse un'aristocratica o una prostituta. Via "Marì Dor't" la nobildonna Maria Dorotea, o ancora "Marì dò r'm", da due piastre di rame, probabilmente il compenso che Maria pretendeva per le sue prestazioni.
"Mi sento molto vicina alle spigolatrici, alle sarte, alle vedove", commenta Marisa D'Agostino, docente e storica gravinese, autrice di numerosi volumi dedicati alla cultura ed alla storia locale, oltre che presidente dell'associazione "Amici della Fondazione E.P. Santomasi". "Alle donne del popolo che con sacrificio mandavano avanti la famiglia, mantenevano i mariti, la donna allora cercava di essere una parte attiva". Ma cosa è rimasto oggi? L'esperta conclude: "Tante fisime e falsi miti, molto esibizionismo per alcune donne che non sono più abituate a lavorare sodo. Al contempo però è importante sottolineare che ancora oggi, noi donne dobbiamo difenderci, ci vuole tanta fatica e tanto impegno per farci rispettare e apprezzare per il nostro lavoro solo perché siamo donne".
Siamo per ora, alla fine del racconto. Difficile condensare in un articolo le tante sfaccettature di questo cammino, che diventa piuttosto un pretesto per raccogliere testimonianze e suggerimenti utili a costruire una sorta di muretto a secco con pezzi complementari l'uno all'altro, tasselli di un passato che non va dimenticato.
Di seguito la galleria fotografica, con alcune immagini storiche messe a disposizione da Tonino Visci.
Condannate a morte ed all'oblio, sopravvivono negli stralci dei libri di storia. "Rosa Brunetti era una donna di grande spirito e di non comune sapere", la descrive così, Domenico Nardone. Giacobina impegnata nei moti popolari del 1799 e militante nella "Vendita Carbonara" fu imprigionata, poi condannata a morte e destinata ad essere dimenticata. Probabilmente, aveva solo ventisette anni.
Baciata da Dio invece, è stata la contessa Giovanna Frangipane della Tolfa, madre di un papa, Benedetto XIII°, moglie del duca Ferdinando Orsini e infine, badessa del conservatorio di Santa Maria del Piede. Rimasta vedova, si occupò di difendere il ducato dalla minaccia altamurana, finanziando pure opere di costruzione, ampliamento e ristrutturazione di molte chiese gravinesi e di una piccola fabbrica di ceramiche nel rione Fornaci, destinando la sua dote in beneficenza per gli indigenti. Dati importanti per comprendere una vicenda intrisa di caparbietà, che la spinse nel 1681 a chiudersi in clausura, con il nome di suor "Maria Battista dello Spirito Santo", rinunciando così ad ogni titolo nobiliare.
Per intercettare un'altra storia di carità e devozione bisogna guardare più in basso, nell'albero genealogico della famiglia Orsini. Teresa Orsini Doria Pamphilj Landi, riconosciuta come "Serva di Dio", viene riportata all'onore delle cronache del tempo per le sue "opere caritatevoli". Fondò a Roma l'"Unione delle pie donne" o "Dame di carità", offrendo così assistenza negli ospedali. Un intervento mirato, lì dove mancavano norme igieniche e spesso cure efficaci per i più poveri. Nel 1821 creò l'ordine delle "Suore ospedaliere della misericordia".
E' negli atti notarili invece, che rintracciamo le esistenze delle donne del popolo. Architetti di una comunità di lavoratrici, specializzate per lo più nel lavoro nei campi, di ricamo e di cucito. Difficile che potessero imporre la propria arte all'esterno delle mura domestiche, il mondo reale, almeno fino agli inizi del XX° secolo, si coniuga ancora al maschile. E per quanto riguarda l'istruzione, al posto del pennino impugnano l'ago e con il filo ricamano a tombolo il proprio sapere che diventerà una vera e propria professione, solo a partire dal 1920. Donne che con questa attività hanno potuto sposarsi, portando in dote abiti cuciti a mano, sostenendo con i loro lavoro i propri coniugi. "E' il caso di Elvira Maiorana, cucitrice, che nel 1903 sposa una guardia del Regio Tratturo" - racconta Marisa D'Agostino, in "Società, costumi e moda" - "e grazie ai proventi del suo lavoro sostiene suo marito nell'acquisto dell'uniforme". La volontà di raggiungere l'indipendenza è testimoniata da un altro atto nel quale, "Domenica Morlino, riceve in dote attrezzi rurali a motivo che essa intende menare per conto suo una piccola industria agraria". Sono ancora gli antichi documenti risalenti alla seconda metà del 1800, a testimoniare il fatto che le donne volevano tutelarsi dagli uomini, ritagliandosi una sorta di bolla indipendente entro la quale racchiudere i propri oggetti, fino ad arrivare al divorzio, pratica non proprio sconosciuta agli inizi del 1900.
Anche l'antico nome di una strada, l'attuale via D'Ales, era titolata ad una donna e non si sa ancora se fosse un'aristocratica o una prostituta. Via "Marì Dor't" la nobildonna Maria Dorotea, o ancora "Marì dò r'm", da due piastre di rame, probabilmente il compenso che Maria pretendeva per le sue prestazioni.
"Mi sento molto vicina alle spigolatrici, alle sarte, alle vedove", commenta Marisa D'Agostino, docente e storica gravinese, autrice di numerosi volumi dedicati alla cultura ed alla storia locale, oltre che presidente dell'associazione "Amici della Fondazione E.P. Santomasi". "Alle donne del popolo che con sacrificio mandavano avanti la famiglia, mantenevano i mariti, la donna allora cercava di essere una parte attiva". Ma cosa è rimasto oggi? L'esperta conclude: "Tante fisime e falsi miti, molto esibizionismo per alcune donne che non sono più abituate a lavorare sodo. Al contempo però è importante sottolineare che ancora oggi, noi donne dobbiamo difenderci, ci vuole tanta fatica e tanto impegno per farci rispettare e apprezzare per il nostro lavoro solo perché siamo donne".
Siamo per ora, alla fine del racconto. Difficile condensare in un articolo le tante sfaccettature di questo cammino, che diventa piuttosto un pretesto per raccogliere testimonianze e suggerimenti utili a costruire una sorta di muretto a secco con pezzi complementari l'uno all'altro, tasselli di un passato che non va dimenticato.
Di seguito la galleria fotografica, con alcune immagini storiche messe a disposizione da Tonino Visci.