Eventi
Scene da un matrimonio gravinese
Riti e rituali connessi allo status più ambito del tempo.
Gravina - domenica 8 marzo 2015
4.05
E' un giorno di maggio, il cielo terso, l'aria è fresca. I bambini giocano rincorrendosi sulla sponda del torrente. Una ragazza alla piccola finestra di una casa senza intonaco guarda il sole, si scherma gli occhi con la mano e intanto, ascolta senza capire il chiacchiericcio delle vicine di casa accorse per gli ultimi preparativi.
A predirle la sorte, i "masciari" detentori dell'interpretazione de "U Rtigl'" scritto da Rutilio Benincasa. Il Rutilio era un libro cinquecentesco basato sull'astronomia e considerato magico. Ma a lei la magia non era servita troppo, già sapeva. Era scritto nei suoi geni che avrebbe trovato un marito. Era bassa quanto bastava, non aveva i capelli né rossi e né biondi - chiari sintomi di lussuria e sfavore divino - ed il naso era grosso ma non troppo, segno evidente della sua generosità. Si diceva anche, che una ragazza troppo alta era più adatta alla raccolta dei fichi piuttosto che per il matrimonio, che una testa troppo piccola non potesse contenere un cervello e che la donna "vacantì" ossia "vuota" fosse l'emblema della nullità sociale. Quando nemmeno la Madonna dell'Addolorata intercedeva per loro (velate di nero partecipavano alla processione dei Misteri per trovare un consorte entro l'anno) le zitelle si trasformavano nei factotum famigliari. Economicamente dipendenti dai genitori si occupavano quindi, dei lavori domestici e di quelli nei campi.
Fin da bambine nell'educazione, nei giochi, nelle fiabe raccontate d'avanti al braciere, il messaggio subliminale era sempre lo stesso: trovare un marito. Persino le vedove, relegate in un limbo inconsistente tra le donne sposate e le nubili, venivano incoraggiate a cercare un nuovo compagno. Le tecniche di seduzione dell'epoca, consistevano nell'aspettare passivamente che qualcuno si interessasse alle giovani, che intanto venivano segregate in casa, fatta eccezione per le funzioni religiose. Le questioni amorose erano il risultato di un ménage portato avanti da vicini di casa, panettieri che servivano la famiglia e parenti più o meno stretti. Intermediari utili anche alla raccolta di referenze sulle rispettive famiglie. Una volta conclusosi questo importante passaggio si poteva procedere alla contrattazione della dote. Un momento delicato, quasi solenne nel quale le famiglie discutevano in presenza di un notaio che certificava la promessa di matrimonio e registrava i beni che entrambi i ragazzi portavano in dote, la "donativa". Il rito consisteva nel giurare solennemente di aver concluso il matrimonio in "de voluntate dei" quindi per volontà divina, che i due contraenti fossero un "onesto" giovane ed una "honesta zitella in capillis". Il riferimento ai capelli si ricollega ad una tradizione longobarda, nella quale le acconciature cambiavano a seconda dello status della dama. La donativa poteva essere restituita fino all'ultimo pezzo, nel caso di mancata successione.
Ed ecco la nostra sposa, raggiante mentre si avvia per le strade della città vecchia. A precederla nel corteo nuziale, "u zejit" con il padre ed il futuro suocero mentre "la zejit" è accompagnata dalla suocera e dalla madre. Al seguito, le rispettive "commare" - madrine di battesimo o di cresima - scortate dai propri mariti. Tutt'intorno i monelli scalzi che augurano felicità ai giovanissimi sposini, sotto gli occhi dei curiosi che si accalcano ai bordi della strada sterrata che conduce alla chiesa. Ancora però non indossa l'abito bianco, moda che verrà introdotta dalle famiglie altolocate a partire dal 1940.
Una volta sposata non ha più nulla da temere. Completamente dipendente dal marito, si occuperà della casa e dei figli ma starà a lei decidere, gli esempi di donne caparbie, astute e risolute non mancano.
Anche questo racconto finisce nella speranza di raccogliere altre testimonianze di un tempo defluito in una cavità nascosta. Rituali che si perdono nelle tradizioni estintesi, consuetudini che descrivono un modo di vivere che possiamo soltanto immaginare grazie alla fantasia supportata dalle immagini. Di seguito, la galleria fotografica proveniente dalla collezione privata di Tonino Visci.
A predirle la sorte, i "masciari" detentori dell'interpretazione de "U Rtigl'" scritto da Rutilio Benincasa. Il Rutilio era un libro cinquecentesco basato sull'astronomia e considerato magico. Ma a lei la magia non era servita troppo, già sapeva. Era scritto nei suoi geni che avrebbe trovato un marito. Era bassa quanto bastava, non aveva i capelli né rossi e né biondi - chiari sintomi di lussuria e sfavore divino - ed il naso era grosso ma non troppo, segno evidente della sua generosità. Si diceva anche, che una ragazza troppo alta era più adatta alla raccolta dei fichi piuttosto che per il matrimonio, che una testa troppo piccola non potesse contenere un cervello e che la donna "vacantì" ossia "vuota" fosse l'emblema della nullità sociale. Quando nemmeno la Madonna dell'Addolorata intercedeva per loro (velate di nero partecipavano alla processione dei Misteri per trovare un consorte entro l'anno) le zitelle si trasformavano nei factotum famigliari. Economicamente dipendenti dai genitori si occupavano quindi, dei lavori domestici e di quelli nei campi.
Fin da bambine nell'educazione, nei giochi, nelle fiabe raccontate d'avanti al braciere, il messaggio subliminale era sempre lo stesso: trovare un marito. Persino le vedove, relegate in un limbo inconsistente tra le donne sposate e le nubili, venivano incoraggiate a cercare un nuovo compagno. Le tecniche di seduzione dell'epoca, consistevano nell'aspettare passivamente che qualcuno si interessasse alle giovani, che intanto venivano segregate in casa, fatta eccezione per le funzioni religiose. Le questioni amorose erano il risultato di un ménage portato avanti da vicini di casa, panettieri che servivano la famiglia e parenti più o meno stretti. Intermediari utili anche alla raccolta di referenze sulle rispettive famiglie. Una volta conclusosi questo importante passaggio si poteva procedere alla contrattazione della dote. Un momento delicato, quasi solenne nel quale le famiglie discutevano in presenza di un notaio che certificava la promessa di matrimonio e registrava i beni che entrambi i ragazzi portavano in dote, la "donativa". Il rito consisteva nel giurare solennemente di aver concluso il matrimonio in "de voluntate dei" quindi per volontà divina, che i due contraenti fossero un "onesto" giovane ed una "honesta zitella in capillis". Il riferimento ai capelli si ricollega ad una tradizione longobarda, nella quale le acconciature cambiavano a seconda dello status della dama. La donativa poteva essere restituita fino all'ultimo pezzo, nel caso di mancata successione.
Ed ecco la nostra sposa, raggiante mentre si avvia per le strade della città vecchia. A precederla nel corteo nuziale, "u zejit" con il padre ed il futuro suocero mentre "la zejit" è accompagnata dalla suocera e dalla madre. Al seguito, le rispettive "commare" - madrine di battesimo o di cresima - scortate dai propri mariti. Tutt'intorno i monelli scalzi che augurano felicità ai giovanissimi sposini, sotto gli occhi dei curiosi che si accalcano ai bordi della strada sterrata che conduce alla chiesa. Ancora però non indossa l'abito bianco, moda che verrà introdotta dalle famiglie altolocate a partire dal 1940.
Una volta sposata non ha più nulla da temere. Completamente dipendente dal marito, si occuperà della casa e dei figli ma starà a lei decidere, gli esempi di donne caparbie, astute e risolute non mancano.
Anche questo racconto finisce nella speranza di raccogliere altre testimonianze di un tempo defluito in una cavità nascosta. Rituali che si perdono nelle tradizioni estintesi, consuetudini che descrivono un modo di vivere che possiamo soltanto immaginare grazie alla fantasia supportata dalle immagini. Di seguito, la galleria fotografica proveniente dalla collezione privata di Tonino Visci.