La città
Via Giudice Montea
Storia di un crollo annunciato
Gravina - giovedì 24 marzo 2011
È già notte. Su Gravina piove che Dio la manda. Scocca la mezzanotte, scoppia l'inferno. Passerà alle cronache come il dramma che solo il destino ha voluto non si trasformasse in tragedia. Su via Giudice Montea viene giù una palazzina disabitata. Sbriciolata dalle piogge e, diranno il giorno dopo i Vigili del Fuoco, "dal cedimento del piano di posa".
È su quelle macerie senza corpi che s'alza l'alba del 22 di marzo 2011. Decine di persone, molte delle quali anziane, vengono costrette ad abbandonare le loro case, adagiate a quella crollata. Fanno le valigie, raggiungono parenti ed amici: sono sfollati, ma per loro non si muove la Protezione Civile e neppure il Comune. Che con un'ordinanza del sindaco Giovanni Divella si limita ad impartire l'ordine di evacuazione.
Via, dunque, in ossequio ad un destino già scritto. L'immobile sgonfiatosi come un soufflè era gravato da un'altra ordinanza, risalente al settembre 2004, con la quale si imponeva ai proprietari di procedere alla sua messa in sicurezza.
Quando in Comune si apre il tavolo di concertazione per provare a venir fuori dallo stato di crisi, quel provvedimento non fa neppure più notizia. Del resto, l'intero borgo antico, negli anni, è stato oggetto di ordinanze di vario tipo e tenore, tutti con identica impronta: mettere in sicurezza.
Facile a dirsi, un po' meno a farsi. Specie quando l'acqua piovana, un tempo fermata nella sua corsa dalle chianche di marca murgiana, inizia a scorrere ogni giorno più tumultuosa tra le viscere delle case e dei loro abitanti ignari, senza che nessuno, neppure il Municipio, come lamentano in tanti, se ne sia mai preoccupato. Anche di questo si discute quando Palazzo di città insedia il gruppo di contatto, al quale prendono parte i privati e gli uffici comunali. Il solo risultato tangibile che caparbiamente l'assessore Serangelo riesce a cogliere in quattro mesi di estenuanti riunioni è quello di veder rientrare quasi tutti gli sfollati nelle loro case.
Nient'altro. Le macerie restano al loro posto, e nessuno le rimuove. E nessuno mette in sicurezza. "Se spostiamo anche solo un mattone, senza un piano di sicurezza che coinvolga l'intero comparto", si giustificano i privati interessati, "cade tutto".
"Non tocca a noi", ribattono dal Comune, trascurando che la legge offre proprio al Comune (ed in sua vece alla Prefettura) la possibilità di agire in via sostitutiva, in danno dei privati eventualmente inadempienti che dal canto loro poco hanno da temere, almeno da un punto di vista penale: il mancato rispetto di un'ordinanza (quale, nel caso di specie, quella che ordina la rimozione delle macerie del cavato e la messa in sicurezza dello stabile crollato) è un reato contravvenzionale, punito con un'ammenda da poche centinaia di euro.
Intanto, nell'eterno italico balletto delle responsabilità e delle competenze, si consuma il paradosso: se il piano di rigenerazione urbana dovesse andare in porto, su via Giudice Montea si affacceranno (alcune) case più belle, con vista sul crollo.
È su quelle macerie senza corpi che s'alza l'alba del 22 di marzo 2011. Decine di persone, molte delle quali anziane, vengono costrette ad abbandonare le loro case, adagiate a quella crollata. Fanno le valigie, raggiungono parenti ed amici: sono sfollati, ma per loro non si muove la Protezione Civile e neppure il Comune. Che con un'ordinanza del sindaco Giovanni Divella si limita ad impartire l'ordine di evacuazione.
Via, dunque, in ossequio ad un destino già scritto. L'immobile sgonfiatosi come un soufflè era gravato da un'altra ordinanza, risalente al settembre 2004, con la quale si imponeva ai proprietari di procedere alla sua messa in sicurezza.
Quando in Comune si apre il tavolo di concertazione per provare a venir fuori dallo stato di crisi, quel provvedimento non fa neppure più notizia. Del resto, l'intero borgo antico, negli anni, è stato oggetto di ordinanze di vario tipo e tenore, tutti con identica impronta: mettere in sicurezza.
Facile a dirsi, un po' meno a farsi. Specie quando l'acqua piovana, un tempo fermata nella sua corsa dalle chianche di marca murgiana, inizia a scorrere ogni giorno più tumultuosa tra le viscere delle case e dei loro abitanti ignari, senza che nessuno, neppure il Municipio, come lamentano in tanti, se ne sia mai preoccupato. Anche di questo si discute quando Palazzo di città insedia il gruppo di contatto, al quale prendono parte i privati e gli uffici comunali. Il solo risultato tangibile che caparbiamente l'assessore Serangelo riesce a cogliere in quattro mesi di estenuanti riunioni è quello di veder rientrare quasi tutti gli sfollati nelle loro case.
Nient'altro. Le macerie restano al loro posto, e nessuno le rimuove. E nessuno mette in sicurezza. "Se spostiamo anche solo un mattone, senza un piano di sicurezza che coinvolga l'intero comparto", si giustificano i privati interessati, "cade tutto".
"Non tocca a noi", ribattono dal Comune, trascurando che la legge offre proprio al Comune (ed in sua vece alla Prefettura) la possibilità di agire in via sostitutiva, in danno dei privati eventualmente inadempienti che dal canto loro poco hanno da temere, almeno da un punto di vista penale: il mancato rispetto di un'ordinanza (quale, nel caso di specie, quella che ordina la rimozione delle macerie del cavato e la messa in sicurezza dello stabile crollato) è un reato contravvenzionale, punito con un'ammenda da poche centinaia di euro.
Intanto, nell'eterno italico balletto delle responsabilità e delle competenze, si consuma il paradosso: se il piano di rigenerazione urbana dovesse andare in porto, su via Giudice Montea si affacceranno (alcune) case più belle, con vista sul crollo.