IL CALZOLAIO - u scarpêre
IL CALZOLAIO - u scarpêre
Mestieri e società

IL CALZOLAIO - u scarpêre

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

Il mestiere del calzolaio è nobile e antico, anche se il termine dialettale u scarpêre, lo scarparo, è stato usato tante volte in senso dispregiativo per connotare un individuo privo di istruzione e povero di mezzi. Le prime corporazioni di calzolai sorsero nel medioevo, quando San Crispino divenne il loro Santo protettore. A Firenze il lavoro del calzolaio fu compreso nel 1293 nella cerchia delle Arti maggiori in quanto erano numerosi quelli che svolgevano quell'attività. Il requisito d'arte nobile discende anche dal fatto che personaggi famosi hanno lavorato come calzolai: gli attori siciliani Angelo Musco e Ciccio Ingrassia, l'imprenditore Salvatore Ferragamo, il filosofo Simone d'Atene, Giacomo Pantaleone che divenne Papa Urbano IV, i Santi Martiri Crispino e Crispiniano, Patroni della categoria.

In Italia esistono l'Università dei calzolai a Novara e il Museo internazionale della calzatura a Vigevano (Pavia). Il calzolaio era un grande lavoratore, impegnato dall'alba al tramonto nella sua bottega, a fare le scarpe nuove e a riparare quelle vecchie. Per fabbricare un paio di scarpe nuove il calzolaio ci impiegava circa due giorni, dopo aver preso le misure del piede e aver preso atto degli eventuali difetti anatomici, tenendo infine conto di quanto poteva spendere il cliente. Usava le forme di legno o di metallo nella lavorazione delle nuove scarpe. La remunerazione del suo lavoro era però misera. Lavorava tanto e guadagnava poco. Significativo era il motto del calzolaio: u scarpêre fêce le scàrpe a l'alte e jdde ve pe le scarpe ròtte (il calzolaio fa le scarpe agli altri e lui va con le scarpe rotte).
Il calzolaio indossava sopra i suoi abiti un grembiule a volte di pelle o di tela, lungo fino alle ginocchia per proteggersi dai tagli, dai graffi e dall'usura. Egli infatti nello svolgere il suo lavoro faceva delle proprie cosce il piano di lavoro, o il punto di presa o di attrito. Il tavolino da lavoro dei calzolai, u bancharjiedde1, veniva utilizzato per contenere gli utensili e i materiali d'uso, che dovevano essere sempre a portata di mano. Per ricavare le forme dalle pezze di pelle o di cuoio appoggiava sulle sue cosce una tavoletta che faceva da piano di contrasto per il taglio, talvolta utilizzava la base del ferro da stiro che veniva appositamente tagliata; le ginocchia facevano da morsa per trattenere le scarpe da rifinire; avvolgeva il filo per cucire facendone ruotare un capo fra la mano e la coscia; teneva con la bocca un pezzo di spago che avrebbe usato più tardi, ne inumidiva i capi con la saliva; metteva in bocca una piccola quantità di chiodi semenze o di bullette da applicare ai tacchi e con le labbra le passava una alla volta alla mano per inchiodarle alla suola o nel tacco.

Al calzolaio, oltre al confezionamento delle scarpe, veniva richiesto di riparare gli arnesi della campagna che presentavano parti in cuoio o in pelle. Gli utensili che adoperava di frequente facevano tanto rumore: chiodi, colla, cera, forbici, lesina, raspa, spago, trincetto, pelle, cuoio, martelli e tenaglie, una spazzola dura con chiodi per raschiare il cuoio delle suole. Non mancavano le caratteristiche forme in legno e di metallo. Il calzolaio era tenuto in gran conto nella società che precedette l'epoca della ricostruzione post-bellica e dello sviluppo economico degli anni sessanta, in quanto la sua bottega costituiva il luogo in cui andava formandosi una delle più rinomate abilità artigianali che più tardi avrebbe contribuito al successo nel mondo del Made in Italy.
La nazione usciva dall'epoca buia degli scarponi di cartone in dotazione - si dice - persino ai soldati spediti nella campagna di Russia, i quali nell'inverno del 1943 soffrirono il congelamento dei piedi lungo il percorso di rientro a casa. Nei paesi e nelle città colpite dalla miseria, durante la guerra, le donne rimaste a casa si adattavano fabbricando di propria mano modesti zoccoli, le zoccôlette, con la suola di legno e la tomaia di stoffa o canapa. Le scarpe erano un bene di lusso per il costo e di necessità per l'utilizzo quotidiano. Si tiravano intere stagioni con lo stesso paio di scarpe. Per la precisione, la dotazione standard era costituita da un paio di scarpe per l'estate e uno per l'inverno, che si usavano fino alla consunzione, grazie alle frequenti risuolature e alla sostituzione dei tacchi di gomma. Era la bravura del calzolaio a permettere la lunga durata delle scarpe. E, pur tuttavia, c'erano famiglie numerose nelle quali le scarpe non bastavano per tutti; così, alla levata mattutina, i più svelti riuscivano a calzare i piedi mentre qualcun altro, alla fine, rimaneva scalzo, da cui il modo di dire ci se càlze prìme a proposito di coloro che riescono ad arrivare prima degli altri ad una meta, un obiettivo, un luogo.

Giovanni Sarsano è stato uno di quei gloriosi artigiani che, come dicevamo, era tenuto in grande considerazione non solo per l'eccellente modo di lavorare ma anche perché, probabilmente a causa della dura lezione ricevuta sin da piccolo in una bottega di calzolaio, si era guadagnato il rispetto dei clienti e di quanti lo conoscevano per via della sua spiazzante gentilezza unita ad altrettanta onestà. Aveva ben assimilato il profilo di educazione e di rigore morale che solo una famiglia numerosa e di stampo contadino era in grado di proiettare: suo padre Sante era infatti un agricoltore e sua madre Maria Raffaella Livrieri era figlia unica i cui genitori, in prossimità del matrimonio nel 1930, imposero la condizione di essere assistiti dai giovani sposi fino alla loro morte. E così fu. E con tutto ciò, intorno alla tavola di casa sedettero alla fine in quindici tra nonni, genitori e undici figli. È questa la famiglia d'origine di Giovanni, che ha sposato Lucia Spalluti e ha generato due figli: Mariella e Sante. Dall'abitazione di via Novella i Sarsano si spostarono in via Tripoli, in quanto Sante aveva comprato un piccolo suolo edificatorio dal possidente Polini. Per far fronte al pagamento del prezzo, tuttavia, Sante fu costretto a cederne metà a sua sorella. Così costruirono un piccolo fabbricato a piano terra con un solo portone ma con due stanze per lato, in modo che fratello e sorella potessero dividersi l'abitazione.
Il piccolo Giovanni aveva imparato il mestiere lavorando per tre anni con mastro Giacomo Zingariello prima e con mastro Michele Lorusso dopo, che avevano bottega in via Giacomo Lupis, nei pressi della chiesa di San Nicola. All'età di sedici anni si mise in proprio, continuando tale attività fino al 1965. Nella bottega di via Lupis continuò ad imparare confrontandosi con gli altri calzolai del paese. La sua bravura aumentò fino al punto di accettare qualche sfida da parte dei clienti: imparò a confezionare le scarpe, a ricavare la gomma per i tacchi dai pneumatici delle automobili, a confezionare le scarpe ferrate per la campagna che venivano rivendute persino ad Altamura.

Giovanni Sarsano (1937) è stato intervistato il 9 gennaio 2023 in via Reggio Calabria n. 56 - Gravina in Puglia. 68 Tuttavia il matrimonio avvenuto nel 1965 gli impose di ricercare una soluzione lavorativa più remunerativa, dal momento che molti clienti non erano buoni pagatori e venivano annotati nel quaderno dei crediti, che negli anni sessanta arrivò a totalizzare 300 mila lire di mancate riscossioni. Pertanto nel 1961 Giovanni tentò di fare fortuna emigrando in Germania, ma vi restò solo quattro mesi. Aveva lasciato in gestione il quaderno dei crediti a suo padre, al quale i clienti morosi dicevano che avrebbero assolto il loro debito al rientro in patria del figlio. Sicché, al suo ritorno, Giovanni ritrovò quel quaderno così come lo aveva lasciato. Nel 1962 fece domanda di assunzione alle Ferrovie dello Stato, vinse il concorso con un punteggio elevato e fu assegnato a Bologna. Nel frattempo tentò ogni strada per ottenere una destinazione più vicina a Gravina. Fu così che passò a lavorare nelle Ferrovie Calabro Lucane a Mellitto, Venusio e, infine, come aiutante d'ufficio a Matera. Dopo tre anni entrò in ruolo definitivo e abbandonò il lavoro di calzolaio, anche se non completamente. I suoi clienti appartenevano a tutte le categorie sociali: pastori, contadini, cavatori, impiegati; pochi benestanti e numerosi poveri del paese.

Allora era frequente passare dal calzolaio per farsi riparare le scarpe, era come andare dal negozio di generi alimentari per la spesa quotidiana. A diciotto anni cominciò a confezionare le scarpe su misura, comprando la pelle da mèste Nardùcce, Leonardo Desiante, che vendeva le scarpe nei pressi del Museo Ettore Pomarici Santomasi. Serviva il quartiere intorno a via Tripoli, una strada principale che collegava la via che veniva da Bari alla via che portava a Potenza. Lungo quella via si erano man mano stabilite varie famiglie: la villa della famiglia Gentile ad angolo con via Bari, il palazzo di Manfredi grosso agricoltore, la casa e l'ovile, la chjudénte, di Filippo Di Palma detto Felìppe u sùrde, i fabbricati dei sacerdoti don Raffaele Cramarossa e don Peppino Cipriani, la casa del costruttore Domenico Liso. Poco arretrata rispetto alla strada principale la nota signora Raguso, detta Cùteline, conduceva un frantoio molto frequentato che diffondeva gli odori della lavorazione delle olive e dei tappeti circolari di corda, unti e intrisi di sansa. Il frantoio era un luogo ben riscaldato dove d'inverno andavano ad intrattenersi giovanotti e anziani in cerca di calore. La Cùteline, che andava in giro alla guida di un calesse, teneva tutti sotto controllo.

Il nostro calzolaio era legato da amicizia fraterna con il futuro senatore e sindaco Francesco Stefanelli e con altri militanti del partito comunista. Alcuni di loro da ragazzi avevano frequentato l'abitazione paterna per svolgere i compiti di scuola con suo fratello. Tra di essi c'era il futuro senatore e sindaco Onofrio Petrara. Una sera tornò a casa molto tardi, verso mezzanotte, e la mattina seguente doveva uscire prestissimo per prendere il treno delle quattro e venti. Sentì suonare il campanello e, data l'ora, uscì ad aprire in pigiama: erano Onofrio Petrara, Francesco Stefanelli e il futuro sindaco Vito Laddaga che gli proposero, per rafforzare la lista, di candidarsi per il PCI nelle elezioni comunali del 22 novembre 1964 dopo la caduta del sindaco Antonio Patimo.
Facendo parte di una famiglia numerosa, poteva prendere molti consensi. Infatti riuscì ad ottenere 319 voti di preferenze e fu eletto consigliere comunale. Nel primo consiglio comunale utile fu eletto anche assessore alla Pubblica Istruzione, dal 1964 al 1968. Dopo si ricandidò nella legislatura successiva ottenendo 519 voti di preferenza. Svolse quindi dieci anni di attività politica. Quando era un semplice calzolaio faceva parte di una compagnia di una dozzina di ragazzi che molto spesso, nonostante le sue rimostranze, si intrattenevano in bottega anche nei giorni feriali. Non tutti erano, come suol dirsi, di specchiata moralità. Uno, in particolare, si dava ai furtarelli. Una sera i carabinieri andarono a prelevarlo dalla bottega e se lo caricarono in macchina.

Molti erano i calzolai nei vari quartieri del paese, soprattutto nel rione di San Nicola. Mèste Nardùcce era figlio di un calzolaio e si era arricchito in America. Al ritorno in patria aprì un negozio di scarpe. Nessuno di loro ebbe però l'ardore e la fortuna del calzolaio Salvatore Ferragamo (1898 – 1960) che da Bonito (Av) emigrò in America e, tornato in Italia dopo una bancarotta, fondò una casa di moda e un marchio divenuti famosi in tutto il mondo.
A Gravina, presso l'Arco di Sant'Agostino, era ubicata la bottega di mastro Antonio Digiesi, mest Antonie, conosciutissimo calzolaio che aveva esercitato il mestiere per tutta la vita. Non solo riparava le scarpe, ma le costruiva anche su misura. Le sue scarpe erano di ottima fattura. Il calzolaio di quegli anni era un personaggio tipico della società, di estrazione popolare e degno di rispetto, tanto da essere designato per un incarico di governo del paese. Facile che fosse di fede comunista. In quegli anni era diffusa la convinzione che anche le persone più umili e prive di adeguata istruzione potessero assumere incarichi politici. Nel 1947 il quotidiano Momento sera di Roma in un articolo sulle proteste bracciantili ironizzò su Gravina in quanto Isola rossa della Puglia, insinuando che nella Repubblica di Gravina un calzolaio avesse assunto l'incarico di sindaco.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine da sito web senza diritti di copyright.
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