IL CANTINIERE - u candenjere
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Mestieri e società

IL CANTINIERE - u candenjere

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

Le cantine erano da paragonare alle bettole, alle taverne dei secoli trascorsi. Erano per lo più luoghi malfrequentati, nei quali la gente umile che faticava a mettere insieme pranzo e cena in una giornata si perdeva, affogando nel vino dispiaceri e ristrettezze economiche. I benpensanti di un paese come Gravina - combattuto tra l'adesione a visioni cattoliche e puritane del modo di vivere e il radicamento negli ideali socialisti con tanto di solidarietà e spirito egualitario - non attribuivano certamente un giudizio favorevole all'ambiente delle cantine che consideravano, senza attenuanti, luoghi di degrado dell'essere umano.

Nel ventennio fascista e fino ai primi anni cinquanta le cantine e i postriboli in esercizio nella nostra città erano soltanto tollerati dalla maggior parte delle persone che conducevano una normale vita dedita alla famiglia e al lavoro, due valori cardini della cultura italiana. Le cantine erano tollerate per via della notevole capacità di assorbimento della produzione vinicola locale. Inoltre esse venivano associate, dagli uomini di buona volontà, alla leggerezza di spirito, all'allegria, alla piacevole compagnia. Che peccato era bere un bicchiere di troppo? L'importante era non degenerare, come invece finivano per fare i bevitori di professione, leggi per vizio, che venivano indicati dal popolo come sckurrùtte: bevevano a gogò, scommettevano a chi si scolava più vino mettendosi in gola, per riuscirci, due dita allo scopo di svuotare e riempire subito dopo il cannarozzo. Ebbene, su questa scia, erano tollerati anche i casini, purché insediati nei posti più nascosti e periferici della città, in quanto l'uomo era uomo e perciò doveva trovare in essi una diversa intimità.

In paese le cantine non mancavano: in ogni rione c'era una cantina a piano terra, qualcuna sotto due o tre gradini dal livello stradale. Nel rione Fondovito si trovava la cantina di Zia Rosa. Qualche anziano, con nostalgia, menava vanto di averla frequentata. L'arredamento della cantina era principalmente costituito da due enormi botti con vino rosso e una botte piccola per il bianco, quest'ultimo tenuto in scarsa considerazione. Non mancava mai invece il vino rosato e l'acquête che si otteneva dal risciacquo delle vinacce già spremute. Il vino della cantina veniva immancabilmente battezzato - in pratica annacquato - più di una volta da quel furbacchione del cantiniere. Tutti lo sapevano. Nascosti nel retro della cantina c'erano un paio di tavoli con le sedie impagliate e qualche panca per i frequentatori più assidui. Da un piccolo bancone, situato quasi dietro la porta d'ingresso venivano serviti, ai clienti di passaggio, dei bicchieri di vino, con pochi spiccioli. Mentre i residenti del rione compravano volta per volta il vino per il loro fabbisogno famigliare.

Di sera quei locali diventavano luoghi di ritrovo. Nei giorni di festa era impossibile trovarvi un posto. Si passava il tempo giocando a carte, alla primiera, bevendo a spese di chi perdeva. Il cantiniere vigilava sul gioco aspettando con ansia il dovuto pagamento. Dopo tanti bicchieri bevuti era facile che nascesse qualche lite. Allora toccava al cantiniere dipanare le discussioni, risolvere i conflitti ed eliminare i rancori. Aveva interesse a farlo, era il suo mestiere. Qualche volta saltavano fuori anche i coltelli. In quei tempi di miseria e di povertà non si poteva che frequentare le cantine ed eventualmente le case di appuntamento, dopo una lunga giornata di lavoro nei campi. I lavoratori gravinesi si rilassavano, per qualche ora, nelle cantine del centro storico: in via Abrazzo D'Ales, sotte a Meninne, in via Nunzio Incannamorte, in via Aquila angolo via Benchi, in via San Giovanni Evangelista, in via Fornaci e in tanti altri luoghi del paese. Il vino veniva servito nelle brocche di terracotta, jnte o rezzöle. Spesso di fronte alla cantina c'era una macelleria, la vucciarì. La carne arrosto, qualche involtino, u marre e della salsiccia, nei giorni di festa, facevano capolino nelle cantine affollate.

Spesso in quegli ambienti vivacchiava il mediatore tra il vignaiuolo e il cantiniere, per la trattativa di vendita del vino. Il suo compito era quello di far raggiungere un accordo gradito ad entrambe le parti e, a lavoro concluso, tratteneva per sé una percentuale del valore della merce oggetto della compravendita. Erano luoghi di aggregazione popolare, di interrelazione tra i lavoratori che spesso e volentieri criticavano la classe politica locale e nazionale. Alla fine degli anni cinquanta, a trent'anni suonati, Francesco Elia di fede socialista era alla ricerca di una qualche stabilità economica non più rinviabile dal momento che, coniugato con Paola Mercadante, doveva provvedere al mantenimento di tre figli: Piero, Ninetta e Antonio. Come in molti casi al mondo, avere al proprio fianco una donna di polso significa poter contare su un aiuto concreto in termini di strategie efficaci per affrontare le difficoltà della vita.

Quante volte Paola si era recata allo studio del medico di famiglia, il dottor Vito Verna, per una visita o per farsi prescrivere rimedi e farmaci! Chiese a lui, che era il santo protettore della salute e il confidente delle famiglie in ambasce, di dare una mano per trovare un'occupazione idonea per il marito. E fu così che nella cantina di Saverio Verna, proprietario e padre del medico, trovarono sistemazione sia Francesco che, come aiutante, Paola. La cantina si trovava in via Marconi, dove attualmente sorge la Trattoria Zia Rosa che ha preso il nome dalla più antica taverna del rione Fondovito, situata esattamente al piano sottano. L'accordo non era tanto allettante, in quanto consentiva di guadagnare solo il tre per cento sugli incassi. Il locale però era piuttosto accorsato e in una posizione che non sfuggiva ai numerosi passanti che attraversavano l'Arco di Sant'Agostino per esigenze diverse. Infatti, da quel passaggio era agevole raggiungere le chiese di piazza Benedetto XIII, la piazza del pesce, le macellerie, drogherie, fruttivendoli, il rivenditore di ghiaccio Jannodde, il giornalaio Salvatore Parrulli di via Matteotti, i tabaccai, il bar di Domenico Cazzorla, la cappelleria d'Alò, sedi di partito e di sindacato, tutti presenti nella non lontana piazza della Repubblica.

L'orario di apertura al pubblico era piuttosto impegnativo dovendo coprire non solo l'arco meridiano, ma anche il pomeridiano fino a mezzanotte. In tutto ben dodici ore. La signora Paola dava il suo contributo per sbarcare il lunario, portava con sé il figlio maggiore Pierino, lasciando gli altri due dalla nonna; raggiungeva la cantina nel tardo pomeriggio e si incaricava di friggere il baccalà da servire agli avventori, che ne richiedevano di continuo perché era caldo e gustoso e si sposava molto bene con il vino.

Il proprietario Saverio Verna menava vanto di quella sua possidenza, così prodiga di buoni affari. Per dare il segno della sua agiatezza e del suo amore per la cultura, ostentava la lettura del quotidiano seduto alla sedia sul marciapiede davanti alla cantina, vestito ogni mattina di tutto punto con giacca, pantaloni, gilet e orologio nel taschino. Spesso chiedeva a Pierino di andargli a comprare La Gazzetta del Mezzogiorno che costava allora 25 lire. La presenza del padrone si avvertiva soprattutto quando arrivava il carico del vino dalla Sicilia, il primitivo e il marsala, riversato nelle enormi botti collocate jnte o' cêddêre, locale sotterraneo molto profondo che assicurava una temperatura costante e assai fresca, ottima per la conservazione del vino. Il Verna era dotato di strumenti specifici per misurare la gradazione alcolica dei vini. Si sedeva a tavolino con tali apparecchi, sorseggiava il vino senza ingoiarlo e, dopo aver così verificato la rispondenza del prodotto alle caratteristiche pattuite, spruzzava il liquido sul pavimento. In quel sotterraneo stava perennemente allerta un gatto pronto ad avventare i malcapitati sorci, anzi, per meglio dire le zoccole, visto che si trattava di roditori di grossa taglia, come quello che in una accanita battuta di caccia intrapresa dal felino riuscì ad avere la meglio mordendogli il labbro e causandone perciò la morte.

I clienti della mattina acquistavano qualche litro di vino da consumare ai pasti, in famiglia. E fin qui tutto nella norma. Di sera il locale, tuttavia, era mal frequentato. C'erano molti spazzini del paese, le munnastrête che si sedevano ai tavoli del vano retrostante, giocando a carte e sorseggiando il buon vino richiamato dal sapore del baccalà fritto in padella dalla signora Paola. Di sera le sorprese non mancavano: avventori ubriachi alzavano la voce, litigavano e aggredivano i compagni più tranquilli. Compito dell'oste, allora, era quello di afferrarli per la giacca e scaraventarli fuori dalla cantina. Qualche vizioso si ingegnava a tracannare più di una damigiana. Si trattava di quei bevitori che ricorrevano all' espediente delle due dita in gola per rinnovare le bevute. Francesco Elia trascorse un anno in quell'attività e nel 1960 emigrò in Germania, a Darmstadt, dove lavorò per cinque anni mentre la moglie a Gravina condusse in gestione un negozio di generi alimentari.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Illustrazione di Marilena Paternoster.
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a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

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