IL CAVATUFO - u cavatàure
IL CAVATUFO - u cavatàure
Mestieri e società

IL CAVATUFO - u cavatàure

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

L'edificazione della nostra città è legata strettamente alla natura del terreno su cui sorge. Gravina poggia sul banco calcareo della fossa bradanica, al vertice nord del corrugamento carsico del territorio pedemurgiano e appulo lucano. Su detto banco si adagiano strati di calcareniti risalenti al Pliocene superiore - Pleistocene, vale a dire a due milioni di anni fa. E' definito calcarenite di Gravina il calcare di origine sedimentaria, formatosi in ambiente marino, mediamente cementato di colore bianco, giallo, rossastro. Pertanto il tufo è da tempo immemorabile il materiale più usato nelle costruzioni a Gravina come nelle altre città della Puglia e della Basilicata: case, castelli, chiese, muri di cinta, necropoli.1 I palazzi gravinesi di proprietà nobiliare e quelli eretti dai borghesi benestanti tra la fine del Settecento fino agli anni sessanta e settanta del Novecento sono stati costruiti con i blocchi di tufo ricavati dallo scavo delle fondazioni, rivestiti all'esterno di mazzaro. Con quei tufi si sono innalzati edifici storici che ancora contrassegnano lo stile architettonico del tempo. Se ne citano soltanto alcuni: palazzo Nardulli, palazzo Savino, il Cinema Centrone nel percorso da porta San Michele a via Alcide De Gasperi, palazzo Liuzzi e palazzo Terribile lungo il corso Aldo Moro.

Oggi i tufi hanno ceduto il loro primato come materiale da costruzione al cemento, ai laterizi e ad altri agglomerati che rispondono meglio ai requisiti richiesti per l'isolamento termico e acustico e per la protezione antisismica. Ciò nonostante lo storico blocchetto tufaceo si presta all'utilizzo nella bioarchitettura e nella progettazione bioecologica. Resiste inoltre un atteggiamento culturale che porta a riproporre pareti, stanze intere, singole componenti di una costruzione composti interamente da tufi faccia a vista, anche per sottolineare le caratteristiche storiche delle abitazioni e dei materiali del territorio pugliese.

Le tante tufare in esercizio nel periodo d'oro dello sviluppo della città sono state abbandonate, destinate a raccogliere i rifiuti urbani, quando non è stato possibile riconvertirle ad altri usi. Nelle contrade Carrara Cupa e Grottemarallo sono rimaste le derivazioni in chiave contemporanea delle vecchie cave. Gravina tufi Srl è un'azienda sorta dall'acquisizione della vecchia Ricciardelli Srl da parte dell'attuale presidente Vincenzo Scarciolla. Estrae tufi con sistemi moderni ottenendo due formati di dimensioni diverse e ben sette formati di tufelle di spessore via via più ridotto. L'azienda copre una buona quota di mercato nell'Italia meridionale e, con un Know how all'avanguardia, estrae materiale di elevata qualità, consigliato per le tramezzature, tamponature, recinzioni, lavorazioni a faccia-vista, giardini e molto altro. Un'altra realtà di rilievo è costituita dalla Eco tufi Srl, con cava nella citata contrada di Grottemarallo avente per oggetto dell'attività l'estrazione di materiale tufaceo, nonché l'esercizio di impresa edile e stradale. Anche in questo caso si tratta della nuova edizione di una vecchia impresa, la Capone tufi Srl.

Non siamo solo figli di contadini, ma anche di cavatufi, tufaroli, cavamonti, cavapietre e scalpellini. Con tali premesse non può essere tralasciato il contributo di tutti questi lavoratori che, con una fatica non più ripetibile nell'odierna società opulenta, hanno reso fruibili i materiali estratti dal territorio.
Vittorio Emanuele Lorusso, cavatufi di mestiere, è nato a Gravina nello stesso giorno e nella stessa ora in cui Maria Josè del Belgio, sposa del Principe di Piemonte Umberto II di Savoia, diede alla luce il suo primogenito al quale fu dato quel nome tipico del casato. Più che un gesto di devozione alla monarchia si trattò dell'osservanza dei requisiti disposti per l'assegnazione di un premio. Sposato con Elisabetta Cataldi, è padre di sei figli: Nicola, Maria Michele, Tina, Raffaele, Angela e Graziano. Quest'ultimo è stato un bravo calciatore professionista, chiamato a giocare in importanti squadre del nord Italia. Tuttavia quando era proiettato verso una brillante carriera, fu preso da una improvvisa vocazione ed entrò nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali. Attualmente esercita il ministero sacerdotale ad Assisi.

L'invito ad apprendere il mestiere gli fu rivolto dall'autorità paterna quando aveva ancora undici anni, come era costume in quei tempi in cui era viva preoccupazione dei genitori progettare per tempo l'avvenire dei propri figli e costituire così il necessario aiuto economico alla famiglia. Andò ad imparare nelle cave di tufi quando si usavano i picconi a due punte per estrarre il prezioso materiale da costruzione. Frequentava le cave soprattutto nel periodo delle vacanze estive. Per fortuna riuscì a completare la scuola elementare fino alla quinta classe, grazie anche alle premure dell'insegnante Giuseppe Gurrado che, consapevole della buona attitudine agli studi del bambino, si era offerto di prenderlo in consegna, vale a dire di farlo studiare e crescere a proprie spese, fermo restando che doveva tornare alla casa paterna solo per dormire. In segno di riconoscenza verso quel maestro, Vittorio - che era riuscito a mettere da parte le piccole mance ricevute dai parenti durante le ricorrenze religiose, fino ad accumulare 20 lire - comprò un mazzo di rose e garofani e lo regalò al suo mentore. Non ci fu niente da fare. Suo padre, che era un mugnaio, impose il mestiere invece dello studio. Un passo fermo nella tufara, dopo il burrascoso apprendistato durante il quale la fatica e il sudore del cavatufi si contrapponevano all'aspirazione a proseguire gli studi, Vittorio si decise a farlo alla fine degli anni cinquanta, quando, raggiunta la maggiore età, si fece strada in lui il progetto di mettere su famiglia, progetto che realizzò nel giro di un paio d'anni, giusto il tempo di predisporre la necessaria base economica.

Ha svolto quel lavoro pesante e non privo di rischi per 37 anni ed è andato in pensione nel 1993. Rimase alle dipendenze per un periodo iniziale di sette anni, senza che il datore di lavoro corrispondesse i contributi previdenziali. Non era più possibile tollerare quelle condizioni di sfruttamento, pertanto Vittorio e un gruppo di altri sette operai presero in affitto una tufara di proprietà della famiglia Torchetti originaria di Bisceglie (Nicola il padre, Domenico e Donato i due figli) e costituirono una cooperativa per l'estrazione del tufo. Alla cooperativa si associarono in seguito altri operai e alla cava Larrure (tufo leggero e segabile) si aggiunse la cava Cuzzarule (tufo duro) sulla strada che porta a Irsina. Quando l'attività lavorativa entrò a pieno regime, la vita di Vittorio non conobbe più soste o momenti di tregua.

La giornata era dura ed estenuante e al rientro a casa doveva mangiare in fretta ed occuparsi della contabilità della cooperativa, della quale era stato nominato presidente. Il tufo di Gravina era rinomato per le sue caratteristiche e, da analisi effettuate in sedi universitarie, risultò un ottimo materiale da costruzione che assorbiva umidità ma si asciugava presto. Tuttavia il mercato di sbocco era costituito dai comuni vicini alle cave essendo il tufo un materiale pesante. Quando Vittorio fu avviato al mestiere di cavatufo si potevano contare a Gravina 13 tufare, ma le richieste andavano crescendo sempre di più e nel boom dell'edilizia, a metà degli anni settanta, si annoveravano nel territorio comunale 23 cave. Venivano a caricare i tufi da Bari, Bitetto, Bitritto, Mariotto, Santeramo, Cassano e Altamura. Le vendite si effettuavano ai piazzisti, intermediari che poi rivendevano il prodotto alle imprese di costruzione dislocate nei vari comuni. Ogni piazzista compiva uno o due viaggi al giorno e i tufi erano quotati a pezzo. La giornata di Vittorio cominciava prestissimo, alle prime luci dell'alba, anzi a volte neanche si vedeva quando si usciva di casa. In questi casi, per non perdere tempo ed avviare subito il lavoro, si portava la calce e con questa si segnavano le tracce lungo le quali procedere con il taglio. Era compito del mastro mest Ciccio Visci segnare le tracce, gli operai tagliavano i tufi fino a 27 cm, quindi il figlio del mastro (Pinuccio) intaccava i tufi. Con u mazzaridde di pietra quadrata si batteva il blocco per lesionarlo; quando il suono cambiava il blocco era estraibile. Con un piccone piccolo si procedeva a stavelé cioè si lisciava il tufo eliminandone le irregolarità.

Quando furono introdotte le macchine nel processo di estrazione molti lavori manuali scomparvero. In particolare per tagliare i tufi entravano in azione due macchine: la macchina tagliateste e la combinata. La prima tagliava con i dischi il tufo a 50 cm di lunghezza, la seconda tagliava le altre due dimensioni del tufo rispettivamente a 27 cm di larghezza e a 20 cm di altezza. E gli operai spostavano i tufi già tagliati. In passato i tufi venivano portati in superficie a mezzo di una macélle, verricello dei muratori o cavamonti con asse orizzontale per tirare tufi o altro materiale dal basso verso l'altezza voluta. In seguito furono introdotti i montacarichi elettrici e le pale meccaniche per rimuovere i rifiuti prodotti dalla lavorazione.

Vittorio ha fatto il palista per oltre vent'anni. La produttività di un cavatufi si misurava in numero di tufi estratti in una giornata: i più capaci dell'epoca (i fratelli Pizzilli) erano precisi e veloci, riuscivano a ricavare fino a 120-130 tufi al giorno; seguivano nella graduatoria i Visci. In ogni caso un cavatufi doveva estrarre minimo 70 tufi al giorno. Le numerose tufare del tempo entravano così in competizione: le cave di Torchetti, Napoletano, Visci, Ricciardelli, Capone, Prezioso si contendevano il primato della produzione e delle vendite. Alcuni proprietari investivano i capitali nell'acquisto di terreni agricoli e ne ricaricavano tufare negli anni di forte sviluppo dell'edilizia. Le cave diventavano sempre più profonde, i poveri cavatufi scavavano fino a 30-40 metri sotto la superficie alla ricerca delle falde tufacee. La proliferazione di questi giacimenti si sviluppò in gran misura, tanto che la via Grottamarallo fu soprannominata Via delle tufare.

La tufara dove cominciarono a lavorare Vittorio e gli altri cavatufi della cooperativa era denominata la cava de le uagnàune in quanto gli operai erano tutti molto giovani. Gli operai arrivavano alla cava che era lontano dal centro abitato, in bicicletta. Nelle piccole cave lavoravano con il piccone quattro cinque operai, nel successivo periodo di meccanizzazione i lavoratori raggiungevano il numero di ventritrè/ventiquattro. I tufi si trasportavano a destinazione con il traino, poi con il motocarro a tre ruote che riusciva a contenere una cinquantina di tufi, quindi con il camion che caricava oltre mille tufi. A volte Vittorio veniva svegliato nel cuore della notte per aiutare a caricare i tufi sul camion di mastro Garofalo di Bisceglie. Il rischio della vita e della salute non è una mera ipotesi nelle attività estrattive. Incidenti mortali sono successi nelle cave. Potevano accadere a chi azionava il montacarichi sulla strada in superficie. Vittorio ricorda il caso di un operaio che, d'inverno, fece impigliare la sciarpa nell'ingranaggio a catena del mezzo. Stava per strangolarsi, ma l'intervento subitaneo dell'autista del camion, che staccò la leva di azionamento della macchina, evitò la tragedia. In altri casi l'inesperienza dei manovratori ha giocato brutti scherzi. Succede che se non calcoli bene il momento giusto in cui afferrare il carico giù nella cava la piattaforma prenda a dondolare e a sbattere con violenza contro le pareti della cava. Una volta questo forte dondolio stava trascinando giù il montacarichi.

Chi lavorava nella cava veniva reso edotto dei rischi nei quali poteva incorrere. E l'informazione costituiva tutto quello che si faceva rientrare nel concetto di prevenzione. I dispositivi di protezione - guanti, caschi, scarpe antinfortunistiche - sono arrivati molto tempo dopo l'epoca di Vittorio, al quale è pure capitato qualche piccolo incidente: una volta prese quattro o cinque tufi sulla gamba, tufi sbattuti fuori dalla pedana respinta dal rimorchio del camion in quanto non manovrata con precisione. Per fortuna uscì illeso dall'incidente e si rialzò in piedi da solo. Anche la salute è in discussione per il cavatufi. La polvere del tufo a lungo andare va ad intaccare i polmoni. Molti operai del settore sono morti per pneumoconiosi, in particolare per silicosi, a causa della continua inalazione delle polveri procurate dalla frantumazione delle rocce calcaree. Si respirava polvere di tufo sia d'inverno con le intemperie che d'estate quando u scazzecarjidde creava un vortice d'aria che girava più forte giù nelle cave. Negli anni novanta l'INPS mandava periodicamente un'ambulanza nelle cave per effettuare visite mediche di controllo.

Vittorio, nonostante il reddito da lavoro non fosse sempre sufficiente per tutti i bisogni della famiglia, ha trovato il modo per far studiare i figli che hanno inteso intraprendere una professione. Infatti il figlio Raffaele si è laureato in giurisprudenza e un'altra figlia, Angela, si è diplomata maestra elementare. In più il nostro cavatufi è stato sempre un profondo credente. E' stato molto legato al parroco della Madonna delle Grazie, prima a don Angelo Casino e poi a don Giovanni Bruno, il quale lo ha portato a conseguire il Ministero straordinario della Comunione. Aveva persino allestito un posto fuori casa dove gli piaceva trascorrere il tempo libero parlando agli altri della sua fede. Aveva utilizzato cassoni fuori uso per copertura e muri di tufo di appoggio; in quel posto si riparavano quando pioveva. Ad un amico che non credeva narrava gli episodi della Genesi e del Vangelo, lasciandolo meravigliato per la ricchezza dei fatti raccontati. Facevano a volte tardi fino all'ora di pranzo. Alla fine lo invitò ad andare con lui a messa la domenica, rassicurandolo circa il modo di partecipare alla celebrazione: doveva ripetere i gesti e le parole che lui diceva. L'ospite constatò che le letture erano quelle che gli erano state raccontate durante gli incontri sotto quella baracca. Vittorio ha continuato a coltivare quella conversione, portando all'amico la comunione durante il periodo di malattia prima della sua morte.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Illustrazione di Marilena Paternoster.

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