IL CUCIPIATTI - u conzapiatte
IL CUCIPIATTI - u conzapiatte
Mestieri e società

IL CUCIPIATTI - u conzapiatte

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

U conzapiatte riparava le stoviglie di creta con filo di ferro e cemento. Fino agli anni sessanta girava per le vie del paese e per farsi notare dalle massaie gridava con voce squillante u piàtte rûtte - u piàtte rûtte, ossia piatto rotto: un invito alle donne a cogliere l'occasione per cucire i piatti rotti e renderli nuovamente funzionali. All'epoca si usavano piatti grandi d'argilla smaltati. Nelle case, quelle della povera gente, si mangiava tutti nello stesso piatto posto al centro della tavola e veniva sicuramente penalizzato il commensale più lento. Quando si rompeva un piatto in famiglia era una tragedia, perché comprarne uno nuovo era costoso e segno di spreco. La riparazione veniva eseguita praticando una grossolana cucitura con fili di ferro, che si facevano passare nei fori praticati da un trapano a corde munito, alla punta, di un chiodo impastato con sostanza cementante. Riparava piatti dalla mattina alla sera. Riparava i piatti stando seduto per terra, un rituale che incuriosiva i passanti. Possedeva un'abilità straordinaria quell'artigiano, ammirato per il risultato che riusciva a raggiungere: i piatti riparati tornavano alla loro piena funzionalità con pochissime lire di spesa. Molti piatti venivano riparati più di una volta.

La miseria dettava legge in tante famiglie di gravinesi. E i bambini si attardavano a rientrare a casa perché incantati dalle operazioni dell'artigiano. Ma, spesso, quello stesso artigiano era considerato lo spauracchio dei bambini. Infatti questi, appena avvertivano gli strilli del conzapiatti per le strade, scappavano via andando a nascondersi negli angoli più bui. Lui faceva la parte del cattivo soprattutto con i bambini più irrequieti, già atterriti dai loro genitori, i quali, pur di ottenere un minimo di quiete, li spaventavano dicendo che l'artigiano cuciva la bocca dei bambini cattivi. Gli strumenti del mestiere erano il trapano a corde, il filo di ferro, il cemento e la tenaglia. Con questo essenziale armamentario il cucipiatti dava sfogo all'inventiva e all'abilità pur di riuscire a guadagnare qualcosa per mantenere la famiglia. L'attività ha conosciuto un'elevata diffusione in tante città italiane, in particolare al Sud.

Gli antichi mestieri come questo sono scomparsi completamente. È anche scomparso un certo stile di vita fondato sul riuso degli oggetti casalinghi, sulla maestria e sul gusto nel ricostruirli o nel riprodurre altri utensili con grande passione e ingegno. La denominazione dei piatti in argilla variava in base al loro diametro: u salsarjedde (18-20 cm), u piàtte menzêne (30 cm), u piàtte rêale (40 cm). I piatti reali venivano spesso decorati con motivi floreali, vegetali e anche con figure. Nei mercati locali e nelle fiere i piatti erano venduti a pile. La tradizione racconta che in alcune località meridionali durante il pranzo nuziale lo sposo traeva auspici riguardo la futura prole svuotando il piatto reale. Se trovava un galletto dipinto il primogenito dei novelli sposi sarebbe stato un maschietto.

Giuseppe D'Eredità (1899 - 1987), coniugato con Anna Colonna, era chiamato u piàtte rûtte e abitava in via Paranza Vigilanza, nei pressi della chiesa di San Francesco. I figli Nicola e Michele facevano rispettivamente il camionista e il contadino a servizio in una masseria. A raccontarci la storia di quell'artigiano è il nipote Domenico che gestisce un fast food ambulante nelle strade di Gravina e nei paesi vicini in occasione di festività ed eventi popolari. Domenico fa pure il cantante con una voce così potente e una somiglianza così sorprendente che passa per il sosia di Albano.
Il nonno Giuseppe ha esercitato un mestiere che sicuramente non è più svolto da nessuno. Il mondo è cambiato e fortunatamente non ci sono più famiglie che mangiano nei piatti d'argilla riparati con il filo di ferro. Comunque l'esperienza di quell'artigiano serve di lezione, ci insegna che il lavoro, compreso quello più umile, è l'ancora di salvezza per l'uomo e per i suoi figli, conferisce dignità e consente di fare progetti per il futuro. Giuseppe D'Eredità riparava i piatti rotti e i fondi di paglia delle sedie. Aveva solo quel mestiere, ma un cervello che faceva funzionare a dovere al fine di trovare altre modalità o espedienti per arricchire le possibilità di guadagno. Andava in giro con la trajinedde, un piccolo carrettino, vendendo la varichina, la saponina, il petrolio per le lampade, la polvere per lucidare le caldaie di rame. I più anziani sentiranno risuonare nelle orecchie i suoi strilli la mudecine… la saponêne … u pêtroglie!

Ogni venditore ambulante in quegli anni del dopoguerra aveva il suo canto di richiamo che faceva uscire di casa le donne in cerca di prodotti, rimedi e altri servizi utili per la casa. Usciva la mattina per fare il giro del paese con il carretto, piazzava i suoi articoli alle massaie, ritirava i piatti rotti e gli ombrelli fuori uso e tornava a casa giusto in tempo per il pranzo. Nel pomeriggio si dedicava al lavoro di riparazione degli oggetti affidati alla sua cura. Disponeva di due magazzini nelle vicinanze, ma preferiva sistemarsi sullo spiazzo davanti a casa, in via Paranza Vigilanza, dove apriva gli ombrelli con le stecche rotte e allineava per terra i piatti da ricucire. Afferrava il trapano di legno con la punta di metallo che faceva girare a mano per praticare i fori sui piatti, usava forbici e chiodi, si serviva delle pinze e del fil di ferro per accomodare sia i piatti sia gli ombrelli.

Una volta al mese si recava ad Altamura con una macchina presa a noleggio e, con la carretta tenuta in parcheggio in via Gravina presso il ristorante di don Paolo Clemente (proprietario della sala per ricevimenti il Gattopardo), vendeva l'acido per pulire le caldaie molto richiesto dai numerosi pastori che producevano latticini e formaggi. Messi insieme tutti questi adempimenti - la riparazione e il commercio ambulante - Giuseppe riusciva ad assicurarsi un buon tornaconto per sé e per la sua famiglia, senza trascurare che pure sua moglie, donna religiosa che tutti i pomeriggi andava nella chiesa di San Francesco per le funzioni, si arrangiava facendo da sbrigapratiche in occasione dei matrimoni dei paesani. Per quei tempi il lavoro di Giuseppe, che lasciò gli attrezzi del mestiere solo quando ebbe compiuti i settant'anni, consentiva quindi un certo benessere. Inoltre non era un'anima sorda allo spirito di fratellanza e all'amore del prossimo, se si fece carico di crescere la figlia di sua sorella scomparsa prematuramente. Accolse quindi in casa la nipote Giuseppina Conte con la quale andò a vivere, a Modugno, negli anni di vecchiaia.

Giuseppe era anche una persona determinata, che non si faceva menare per il naso dalla gente. Aveva stabilito che i clienti andassero a ritirare gli ombrelli riaggiustati entro due giorni, altrimenti lui li avrebbe venduti ad altri. Questa determinazione negli affari la metteva a disposizione ovviamente anche dei suoi figli. Nicola, il camionista, trasportava i tufi per conto di un noto personaggio del paese che però spesso non pagava la prestazione ricevuta. Grazie all'intervento di Giuseppe, quella persona alla fine si decise a sdebitarsi offrendo in pagamento una certa quantità di olio di oliva.
Giuseppe D'Eredità era ben inserito nell'organizzazione sociale di quei tempi, avendo scelto di rendere alla povera gente i servizi di riparazione degli oggetti di uso comune e di vendere prodotti di largo consumo. Poteva disporre di una fascia di clientela che non ha fatto mai registrare défaillances fino a che il progresso economico e tecnologico non ha sovvertito i canoni commerciali e gli stili di vita. Il rione di San Francesco e della vicina chiesa di Santa Sofia in quel periodo pullulava di famiglie residenti, spesso numerose, e di svariate botteghe artigiane. C'era un via vai di esseri umani che si muovevano con le proprie gambe, le macchine erano molto poche e vedevi agli angoli delle strade, nei claustri, a ridosso delle cantine private cui si accedeva dall'esterno, dovunque lo spazio lo permettesse, molti traini in sosta dietro i quali tante volte si nascondevano coppie di fidanzatini innamorati e ragazzacci irrefrenabili intenti a liberarsi delle urgenze corporali.
In via Paranza Vigilanza, dove lavorava Giuseppe, abitava al piano superiore il muratore Ferrante, di fronte c'era la sartoria di Giuseppe Carlucci che organizzava corsi di taglio e cucito. Poco distante, in una rientranza della strada, si trovavano l'abitazione del professor Filippo Pallucca, maestro elementare, nonché il suo ufficio politico e la sede della A.N.R.P. (Associazione Nazionale Reduci della Prigionia). Sembrano ancora risuonare i passi spediti di quell'esponente del Partito Repubblicano di origini siciliane che si era accasato con una insegnante di buona famiglia, la maestra elementare Filippina De Mariniis. Usciva di casa con un fare dinamico, con le scartoffie sotto il braccio, dirigendosi verso la piazza centrale del paese dove avevano sede le sezioni di partito, la Camera del Lavoro, la scuola media, negozi e caffè. Nel tragitto incontrava molta gente con la quale scambiava cordialmente qualche parola, impegnandosi a consegnare loro per beneficienza pacchi alimentari e altri beni di prima necessità. Era un personaggio aperto e disponibile verso la povera gente. Aveva istituito, tra l'altro, un asilo privato, gratuito per i bambini i cui genitori non potevano pagare la retta e un Istituto di Vigilanza Notturna e Campestre La Volante con a capo Giorgio Zuccaro.

Quanta umanità e quante attività di vario genere si riscontravano in quelle strade pavimentate con le larghe chianche di mazzaro gravinese! Abitavano in quei pressi il sarto Domenico Loviglio, mèste Mincûccio, cognato del Senatore Francesco Stefanelli, il segretario comunale don Matteo De Mariniis, la sarta Giucarell, il portiere dell'Ospedale Mêncucce mezzöne, la famiglia del professor Andrea Cicolecchia nell'ex convento di Santa Sofia, i possidenti Bruno, Capozza, Barbara. Vivevano in quella contrada anche medici specialisti molto apprezzati: l'otorinolaringoiatra Francesco Barbara, il cardiologo Pasquale Ginevrino nonché il medico Gioacchino Lapolla. Un personaggio molto tipico di quell'epoca era bachèttelle che dispensava saggezze popolari andando in giro con un mantello nero; abitava in un edifico storico con la scritta in latino sul portone d'ingresso: NON ORE SED CORDE.
Nell'ex convento di Santa Sofia era alloggiata la Pretura - con ingresso dalla via omonima - che creava ancor più movimento in quelle zone con il traffico di giudici, avvocati, testimoni e imputati. L'edificio ospitava anche l'abitazione della famiglia del custode, Peppine Scialò, il quale percorreva le strade del paese con la carretta piena di indumenti da vendere. In questo ampio campionario di massaie, operai, contadini, liberi professionisti erano comprese alcune signore che davano un tocco di classe a quell'ambiente piuttosto rustico e popolare. Le signore in questione erano familiari dell'impiegato comunale Benedetto Pontrelli e la domenica mattina si recavano a messa nella chiesa di San Francesco, attraversando la stretta via del cucipiatti abitata da famiglie semplici. Bionde, vestite con sobria eleganza, passavano con cautela sulle chianche, evitando che i tacchi delle belle scarpe si impigliassero nelle profilature e nelle irregolarità delle pietre. Lo scarto tra le fisionomie del popolo e l'aspetto di quelle signore era stridente

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine: illustrazione dell'artista Marilena Paternoster
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