IL DROGHIERE - u droghjire
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Mestieri e società

IL DROGHIERE - u droghjire

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

Il droghiere vendeva al minuto spezie e altri generi coloniali, detti in passato droghe, e gestiva una drogheria. Ti accoglieva con gentilezza e con garbo, tratti del comportamento oggi raramente riscontrabili a causa del logorio della vita moderna. Gli odori e i sapori delle drogherie erano del tutto particolari e tipici di quei tempi. Nelle antiche drogherie potevi trovare tutti i tipi di caramelle, ce n'erano di tutti i gusti: balsamiche, alla frutta, al miele, fondenti e gelatinose. Passando poi al cioccolato e ai cioccolatini anche qui ampia scelta: fondenti, al latte, ripieni, con la qualità garantita di un marchio. Tantissimi anche i tipi di confetture, marmellate e miele di alta qualità. C'era del buon thè (nero, verde, bianco), le tisane e gli infusi, ottimi biscotti disposti in belle scatole di latta decorate. E per fare il pane e i dolci potevi scegliere tra i tipi di farina più adatti, dal doppio zero all'integrale; il riso, di varietà differenti, era venduto sfuso. Si può dire che l'antica drogheria sia stata l'antesignana del più moderno supermarket. Ed è stata soppiantata proprio in seguito allo sviluppo di questi negozi di generi alimentari, prodotti per la casa, articoli per l'igiene e la cura della persona. Le spezie erano destinate a più scopi: alimentare, per condire e conservare il cibo, medicinale per curare le malattie, magico e religioso per rituali e cerimonie. Le drogherie si sono col tempo specializzate nella consulenza e nella vendita di un vasto assortimento di medicinali, articoli di bellezza, per il benessere personale e per l'uso domestico.

Il droghiere consiglia la clientela nell'automedicazione, fabbrica prodotti su indicazione, gestisce l'assortimento della drogheria e conosce le proprietà e i modi d'uso d'ogni singolo prodotto. Più appropriati sembrano i termini inglesi di grocer per droghiere e di grocery per drogheria. All'inizio del XIV secolo, le botteghe in questione commerciavano le merci secche commestibili quali le spezie, il pepe, lo zucchero e, più tardi, il cacao, il thè e il caffè. Essendo questi articoli comprati in grossi quantitativi, i droghieri furono chiamati grocers, termine che a sua volta deriva dal francese grossiste.

In Italia le drogherie si diffusero soprattutto tra la fine dell'Ottocento e gli anni trenta del Novecento. A Gravina negli anni del dopoguerra e della ricostruzione erano in esercizio tre drogherie. Erano rinomate quelle gestite da don Filippo Abbatista in piazza del Plebiscito, da Armando Magaraggia in via Pasquale Cassese e da Angiolino Lombardi, u russe, in via Marconi. Negli anni della maturità era solito fare lunghe passeggiate inoltrandosi dal centro della città fin verso la zona castello in periferia, costeggiando tutto il muro di tufo dietro il quale si nasconde la Villa Margherita. Alto, dalla figura asciutta, lo sguardo indecifrabile protetto perennemente dalle lenti scure degli occhiali, preservava la sua andatura appoggiandosi al bastone.

Il droghiere più noto e rispettato del paese, don Armando Magaraggia (1907- 1993), destava una sensazione di inappuntabile superiorità e di misterioso stile. Pur essendo barese di nascita, il cognome e la capigliatura rossiccia tradivano un'ascendenza non certo locale, si trattava probabilmente di una vecchia origine veneta. Suo padre Ernesto era nato a Carovigno (Brindisi), lavorava nelle ferrovie e aveva l'hobby della caccia. Sua madre Elvira Laricchia Forges Davanzati era originaria di Adelfia-Canneto, era una casalinga e una donna intelligentissima; sosteneva di avere origini nobiliari. La famiglia di Ernesto ha abitato nel casello ferroviario n. 95 sulla strada per Altamura. Armando Magaraggia studiò fino alla terza media e da giovane trascorse qualche anno a Bari, ospite della zia paterna moglie di un facoltoso commerciante di legnami, consentendosi le libertà e i divertimenti connessi con l'ardore della giovane età. Negli anni trenta partì per la Somalia, che all'epoca era una colonia italiana, in quanto c'erano buone occasioni di lavoro nel progetto di completamento della ferrovia Mogadiscio-Villaggio Duca degli Abbruzzi. Fu capo stazione a Mogadiscio, dove aveva alle dipendenze un attendente somalo che gli faceva la spesa tutti i giorni.
Tornò a Gravina nel 1940, giusto in tempo prima che gli inglesi occupassero il capoluogo somalo nel 1941. In quegli anni gli italiani che vivevano a Mogadiscio rappresentavano il trentatré per cento della popolazione. Armando sposò la gravinese Maria Pentimone (classe 1920), figlia di Filippo Pentimone il quale, al rientro dalla grande guerra, aprì un frantoio in via Corato che in seguito, primo fra i tanti, fu innovato liberandolo dall'uso degli animali per azionare la macina. Armando e Maria si unirono in matrimonio nel 1945 e misero al mondo quattro figli, due maschi e due femmine: Fosco, trasferitosi a Milano dove è stato dirigente della Regione Lombardia; Giacomo, ragioniere, ha lavorato nell'impresa di costruzioni dei Fratelli Dibattista; Elvira, laureata in scienze politiche, ha lavorato per poco tempo al Ministero del Tesoro prima di trasferirsi in Sudafrica al seguito del marito; Anna, diplomata alle magistrali, ha lavorato nella segreteria di una scuola.

Armando fu nominato assessore nella giunta prefettizia del Comune di Gravina nel luglio del 1945, quale esponente del Partito Democratico del Lavoro. Qualche tempo dopo, nel 1947, fu licenziato dal Consorzio Agrario Provinciale a causa di divergenze politiche e avviò quindi l'attività di droghiere. La drogheria fu aperta in via Pasquale Cassese, in un locale dello storico palazzo Capone-Spalluti, affianco all'abitazione di un gruppo di suore meglio descritte più avanti. Proprietario del locale era don Mincuccio Capone-Spalluti, che trascorreva la mattinata seduto sull'uscio di casa, rispondendo al saluto di quanti lo incrociavano e, scappellandosi, lo salutavano: buongiorno signurine.
Annessa al palazzo, su via Vittorio Veneto, c'era la stalla, dove Capone-Spalluti custodiva - tra l'altro - un bel cavallo bianco. Il cocchiere Bartolomeo Lorito qualche volta portava con sé sul calesse il piccolo Giacomo fin verso il bosco. Quella via, Pasquale Cassese, era molto frequentata. La sera passavano i traini di ritorno dalla campagna. Un giorno uno di quei traini passò sopra la tartaruga del piccolo Giacomo schiacciandola.
La famiglia Magaraggia abitava in principio in piazza Benedetto XIII, nel palazzo di Domenico Divella, che fu conciliatore nel Comune e segretario dell'IPSIA di Gravina in via Gorizia. Nel 1954 si traferì nella casa di proprietà di via Ludovico Maiorana, dove ancora risiede Giacomo. Il droghiere si faceva dare una mano dal figliolo; a giudizio di questi, suo padre era un conservatore dal punto di vista politico. Era anche un fumatore convinto e continuò a respirare il fumo delle sigarette fino alla fine dei suoi giorni. Era una persona che si teneva aggiornata attraverso la lettura dei quotidiani; inoltre leggeva i libri gialli per tenere occupata la mente negli spazi che si potevano creare tra un cliente e l'altro durante la lunga giornata di apertura della bottega. In questa si fermavano a discorrere con il droghiere - come se fosse un circolo culturale - diversi professionisti in vista della città: il professore Angelo Amodio, il medico dott. Raffaele Crocitto, i professori Francesco Mastrogiacomo e Ninì Pellicciari. Del resto, come accennato, in via Cassese si registrava un notevole traffico di persone, di animali da traino e di faccende di varia natura. Poco distante operavano la sartoria di meste Vito Detommaso, u zuppe e la bottega di Crocitto che vendeva stoffe. Di fronte Loglisci, detto sckatilicchie, svolgeva l'attività di grossista di salumi e le sorelle Porzia, al primo piano del portone dirimpetto, lavoravano a maglia sobbalzando di gioia quando vedevano giocare per strada il piccolo Giacomo, che trattavano, loro che erano single, come fosse un giocattolo. Si affacciava su quella stessa strada la bottega del barbiere Salvatore Fragassi. C'era anche la stalla delle suore, dove erano parcheggiati il traino e il mulo a servizio dei due bravi contadini – Filippo Bartolomeo e Donato Dimattia - che curavano i terreni agricoli di quelle pie donne, dai quali possedimenti esse ricavavano fichi, uva, mandorle e olive. Quelle religiose appartenevano all'ordine delle Suore Missionarie del Sacro Costato che avevano ereditato l'immobile e i terreni dal possidente don Filippo Gramegna in segno di gratitudine per l'assistenza offerta durante gli anni della sua vecchiaia.

La bottega del droghiere si presentava agli avventori con un intenso odore di spezie disposte alla rinfusa, soprattutto di cannella e chiodi di garofano. Gianni Rodari nella sua poesia Gli odori dei mestieri ha scritto: "Io so gli odori dei mestieri: / di noce moscata sanno i droghieri; / sa d'olio la tuta dell'operaio; / di farina il fornaio; / sanno di terra i contadini; / di vernice gli imbianchini; / sul camice bianco del dottore / di medicine c'è un buon odore. / I fannulloni, strano, però, non sanno di nulla e puzzano un po' ".
La drogheria di don Armando aveva un aspetto classico e ordinato, quasi fosse una farmacia. Un bancone di marmo molto grande installato davanti alla parete destra del locale, una piccola scrivania posta dietro la vetrata dell'ingresso e scaffalature a vetri collocate lungo la parete di sinistra e lungo il lato di fronte all'entrata. La scaffalatura girava poi dietro il bancone con ripiani a giorno. Apriva alle otto di mattina fino all'ora di pranzo; nell'arco pomeridiano restava aperta fino alle venti di sera. Si vendeva di tutto in quel piccolo bazar: l'acido salicilico per la conservazione della salsa molto richiesto d'estate dalle massaie, l'alcool etilico o etanolo componente di base delle bevande alcoliche e l'alcol denaturato quale disinfettante, gli estratti colorati per il rosolio da produrre in casa, u sense, caramelle, biscotti, confetti e confettini, le canelìne, zucchero, riso. Si vendevano anche prodotti utili per la conservazione dei vini. Gli amari, il vermut e il marsala andavano a ruba in occasione delle feste. Per la cura dell'anemia e come ricostituente il droghiere raccomandava un bicchierino di Ferrochina Bisleri o di Vov che era un sostitutivo dell'antico uovo sbattuto. Si vendevano, inoltre, articoli sanitari e prodotti di profumeria e per la cura della persona. L'attività raggiunse il culmine delle vendite negli anni cinquanta e sessanta; in seguito andò scemando man mano che si diffondevano i supermarket, le profumerie e gli altri negozi di generi alimentari e di mercanzie varie.


Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine: illustrazione dell'artista Marilena Paternoster
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