IL FABBRO - u ferrêre
IL FABBRO - u ferrêre
Mestieri e società

IL FABBRO - u ferrêre

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

Vulcano, il dio romano del fuoco, corrispondeva al dio greco Efesto, che era considerato protettore della metallurgia. Era un fabbro ed appariva talmente brutto agli occhi di sua madre Era, moglie di Zeus, che venne scaraventato dall'Olimpo sull'isola di Lemno per ben due volte. Tuttavia il mito volle che si salvasse grazie alle cure amorevoli delle Ninfe e che sposasse la dea Afrodite, la più bella in assoluto. Nella sua fucina nelle viscere dell'Etna lavorava incessantemente alla forgiatura. Mestiere che sporca il fabbro di polvere nera, residuo del fuoco ardente e della lavorazione dei metalli. Mestiere che richiede forza fisica tanto è vero che nelle riproduzioni artistiche il fabbro ha le sembianze di un uomo muscoloso che batte senza cedimenti il martello sull'incudine. Riaffiora alla memoria l'incisione riportata sulla vecchia moneta da 50 lire.

L'intervento principale dell'artigiano è costituito dalla forgiatura: il metallo viene riscaldato a temperature elevate su una forgia, alimentata a gas o a carbone, fino a che diventa incandescente, prestandosi in tal modo ad essere lavorato, piegato o tagliato, secondo le tecniche tradizionali della trazione, piegatura, compressione e punzonatura. I vari pezzi possono inoltre essere tra loro saldati. Talvolta il fabbro si avvale della fiamma ossidrica per riscaldare il ferro in determinati punti. Il lavoro artigianale è stato soppiantato dai processi produttivi a livello industriale, ma alcune botteghe resistono ancora per rispondere a particolari esigenze di nicchia, quali le lavorazioni del ferro battuto.

Il termine fabbro deriva dal latino faber che era di solito accompagnato da un attributo per indicare la materia lavorata (faber aerarius per il rame, argentarius per l'argento, ferrarius per il ferro) oppure per specificare l'attività svolta. Il faber per antonomasia dei romani era il faber tignarius, cioè il carpentiere. C'era poi il maniscalco che era il fabbro specializzato nella ferratura dei cavalli o nell'affilare e appuntire il vomero dell'aratro. Questo lavoro era diffuso nella civiltà contadina quando si usavano gli animali per il trasporto e per lavorare la terra. Nella civiltà romana si parlava di homo faber che non produceva solo gli attrezzi da lavoro, ma anche molti utensili per uso civile richiesti da quella società evoluta e cosmopolita. Non si può fare a meno di citare il motto Faber est suae quisque fortunae, vale a dire Ciascuno è artefice del proprio destino, che in un'epistola a Cesare lo storico Sallustio attribuisce al Console Appio Claudio Cieco. L' espressione è alla base della teoria secondo la quale è l'uomo l'unico responsabile delle proprie azioni e non il fato, idea dominante nel mondo classico. La teoria si svilupperà soprattutto nell'Umanesimo e nel Rinascimento, ma lascia ancora oggi solchi incolmabili tra i sostenitori e gli oppositori, come è ben rappresentato nel romanzo del 1957 Homo faber di Max Frisch (scrittore svizzero di lingua tedesca). È il diario di un ingegnere meccanico alieno da ogni sensibilità umanistica, destinato a scontrarsi con la sua stessa incredulità.

La querelle tra l'uomo che si adopera con le sue sole forze per il miglioramento della propria condizione sociale e l'uomo fatale che affronta la realtà con scetticismo si addice appropriatamente alla storia del nostro fabbro ferraio. Il fabbro ferraio mastro Pietro Antonacci (1911 - 2002) era originario di Poggiorsini, Comune che fino al 1957 fu una frazione di Gravina. Sposò la sarta Antonietta Chiaradia nel '33 e dal matrimonio nacquero otto figli: Grazia (morta all'età di 10 anni), Gaetano, Anna, Francesca, Grazia, Giuseppe, Francesco e Maria Teresa.
I genitori di Pietro appartenevano al caratteristico mondo rurale del loro tempo, vale a dire che facevano parte della società dei contadini senza proprietà terriera, braccia che lavoravano per conto terzi. Il padre di nome Gaetano era anche fabbro e morì giovanissimo che aveva appena trentasette anni, lasciando il gravoso compito di provvedere al mantenimento della famiglia, con sei figli a carico, al primogenito Pietro, undici anni d'età. A sedici anni si presentò a Pietro la prima importante opportunità. Grazie all'abilità dimostrata nel riprodurre un bullone rotto, fu chiamato a lavorare nel cantiere delle Ferrovie dello Stato che in quell'epoca stava posando i binari sulla linea Gioia del Colle - Rocchetta San Antonio. Il salario era fissato in trecento lire al mese che lui ripartiva saggiamente in tre parti uguali: una per la famiglia, una per le sue necessità e l'ultima destinata al risparmio.
A vent' anni partì per Roma per il servizio militare. Forte senso del dovere e grande disponibilità nelle relazioni interpersonali furono i fattori determinanti che favorirono un legame di fedeltà e amicizia con il suo capitano, al punto che la moglie di questi, la genovese Ines Badino, prese a cuore l'educazione del giovane, molto volenteroso ma analfabeta. Gli insegnò a fare la firma e, pian piano, a leggere e a scrivere. Alla fine il singolare caso del giovane fabbro cui il destino assegnò prematuramente il ruolo di capo famiglia divenne il soggetto di un racconto scritto da quella signora e pubblicato sul quotidiano Il Secolo XIX.

La prima officina fu avviata nel 1933 in via Cardinale Fini in un locale a piano terra di appena dodici metri quadri. In questa angusta lamia Pietro esercitò il mestiere fino al 1947, quando riuscì a comprare un terreno in via Annibale Moles sul quale esisteva un locale più grande, di sessanta metri quadri, che divenne il primo laboratorio di proprietà. Alla fine degli anni sessanta abbandonò anche quel posto e costruì il piano terra del palazzo di famiglia, in via Corato, nel quale sistemò definitivamente l'officina. Da quel momento si consolidò il successo della ditta individuale Antonacci Pietro e figli - Manufatti in ferro, che il fondatore fece crescere fino al 1975 quando andò in pensione, pur continuando a seguire il lavoro fino all'età di ottant'anni. Gli affari dell'impresa furono quindi affidati ai due figli fabbri Gaetano e Francesco.
Nel 1985 la società tra i due fratelli è stata scissa in due ditte individuali. L' officina era diventata una vera e propria impresa della lavorazione del ferro di una certa dimensione, che offriva lavoro a una ventina di operai all'anno. I più capaci, dopo aver imparato il mestiere, decidevano di mettersi in proprio e meste Pètrucce non nascondeva un certo senso di orgoglio per aver contribuito a formare nuovi apprezzati artigiani, come Domenico Caso, Mario Aquila, Nicola Calculli, Francesco Messina e tanti altri. Quando se ne andavano, anziché contrariarsi per la perdita, dava loro incentivo e incoraggiamento a intraprendere l'autonoma attività.

Negli anni settanta alla lavorazione del ferro si aggiunse la nuova linea di produzione di infissi in anticorodal e la denominazione dell'impresa mutò in Antonacci Pietro e Figli – Manufatti in ferro e alluminio. Gli operai si distribuivano tra la forgia, la lavorazione dell'anticorodal, la saldatura che fu introdotta negli anni sessanta. L'asso nella manica per lo sviluppo dell'azienda fu la produzione, lavorazione a mano e installazione di ringhiere per i balconi, che prima venivano realizzati in muratura a meno di non rivolgersi ad artigiani di altri paesi. Fino agli anni sessanta l'officina era addetta soltanto alla lavorazione del ferro, anche se il maestro forgiava pure i martelli per i muratori. Subito dopo, con l'introduzione della saldatura, la produzione si ampliò. Pietro cominciò a servire la classe degli agricoltori, costruendo zappe, zapponi per i cavamonti, picconi a doppia funzione e vomeri. Lavorava spesso fino a notte per forgiare o riparare gli attrezzi per i cafoni che l'indomani, alle prime luci dell'alba, dovevano recarsi a lavorare nei campi. In seguito, di pari passo con l'evoluzione economica e sociale, si dedicò alla forgiatura degli attrezzi per i muratori: martelli e cazzuole sempre più richiesti per rispondere al boom dell'edilizia registratosi nella prima metà degli anni sessanta. Quindi intervenne la linea delle ringhiere e via via altre produzioni quali le decorazioni per interni e i portoncini blindati.
Gli operai erano assunti tutti con regolari contratti a tempo indeterminato - prima come apprendisti e successivamente come operai specializzati - consultando in via preliminare l'ufficio di collocamento. Nel 1975, anno di piena maturità dell'impresa, risultavano iscritti nel libro paga dell'azienda tanti bravi operai che di lì a poco avrebbero espresso la propria abilità artigianale in imprese autonome: tra i primi i figli del fondatore, poi, tra gli altri, i fabbri Domenico Dibattista, Domenico Paternoster, Vito Lagreca con una retribuzione mensile comprensiva dello straordinario che si avvicinava a 150 mila lire. Tutti erano pagati con regolarità, in quanto il motto era: pagare prima i dipendenti e poi, se rimanevano margini, il datore di lavoro.
Nel 1975, quando il titolare si ritira in pensione, il figlio Giuseppe, che era stato mantenuto agli studi e che aveva lavorato nella ditta in qualità di contabile, dona la sua quota agli altri due fratelli. Così il sodalizio continua fino alla morte di Gaetano nel 2015. Ai giorni d'oggi l'attività risulta esercitata separatamente, cioè con due distinte imprese, dai figli di Gaetano e Francesco. Fino agli anni quaranta e cinquanta si lavoravano alla forgia i blocchetti di ferro acquistati dai fornitori. Negli anni sessanta si compravano i semilavorati da portare a finitura. Alla fine di quel decennio si cominciò con l'anticorodal. Erano anni di intensa attività, tanto che l'azienda ebbe bisogno di assumere molti operai quando fu costruito il rione popolare della Madonna delle Grazie. Allora la paga cambiò periodicità, da settimanale, com'era in uso ormai da molti decenni, a mensile. Nell'epoca del boom, gli operai venivano incentivati con premi di produzione fuori busta che suscitavano in loro compiacimento e ammirazione nei confronti del datore di lavoro.

In quegli anni l'azienda accettava anche lavori esterni: ad Altamura partecipò alla costruzione del mobilificio di Tucci in via Matera, a Taranto lavorò alla edificazione del rione Tamburi. I macchinari utilizzati hanno conosciuto anch'essi un'evoluzione: la forgia a carbone negli anni trenta, la tagliatrice a mano, la prima saldatrice elettrica, la smerigliatrice prima a mano e poi elettrica, la saldatrice ventilata per mantenere costante la temperatura. Mai un incidente di lavoro di grave entità, in quanto c'era molta attenzione a che fossero utilizzati i dispositivi di sicurezza.
Pietro fu insignito di diverse onorificenze: Cavaliere del Lavoro negli anni sessanta, quindi Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana e infine il 2 giugno 1987 il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga gli conferisce l'onorificenza di Commendatore. Mastro Pietro ha servito clienti di tutte le categorie sociali: contadini, muratori, imprenditori edili come Beniamino D'Agostino e l'ing. Giuseppe Giovanniello, sindaco di Gravina e senatore della Repubblica. Eppure a Pietro non bastò il lavoro di fabbro e negli anni sessanta comprò una trebbiatrice, in società con mastro Nicola Calculli. I due lavoravano per conto terzi e, in estate, andavano a trebbiare, tra l'altro, nella tenuta di don Peppino Marchetti.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine dal web senza copyright
  • Michele Gismundo
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