IL FALEGNAME - U mestedàsce
IL FALEGNAME - U mestedàsce
Mestieri e società

IL FALEGNAME - U mestedàsce

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

I falegnami costruivano i traini (mèste d'àsce de l'arta grósse) oppure i mobili (mèste d'àsce de l'arta fine). Entrambe le attività richiedevano notevoli capacità e talvolta un'ispirazione artistica. In ogni caso i falegnami lavoravano solo con pochi attrezzi rudimentali, quali trapani manuali, seghe, pialle, martelli, chiodi, raspe e altri arnesi. Riuscivano a costruire armadi, letti, comodini, bauli e ogni altro oggetto di legno. Alcuni, all'occorrenza, costruivano anche le bare, le bavoghjere con il fondo di zinco facendosi aiutare dal calderaio, u calarêre. I più abili si applicavano alla lavorazione di tavoli allungabili e alla creazione di pezzi di arredamento intagliati e intarsiati che venivano considerati delle autentiche opere d'arte. I legni pregiati costituivano la materia prima degli ebanisti. Gli apprendisti aiutavano i maestri a trasportare il materiale, andavano a riempire l'acqua dalla fontana e rassettavano la bottega alla fine della giornata, raccogliendo gli scarti della lavorazione, le vambugghie.

Il falegname sceglieva il tipo di legname più adatto per fabbricare i mobili, le cassapanche, le vetrinette. Spesso ricostruiva porte, vetrine, portoni, finestre e altri serramenti danneggiati dai bambini che giocavano con il pallone e lanciavano i sassi con la fionda. Costruiva anche le culle, i girelli, i seggiolini e i cavalli a dondolo. In seguito, con il progresso, il falegname si vide obbligato a diversificare e meccanizzare alcune fasi del lavoro, inserendo macchine in grado di accelerare il processo produttivo. La tecnica dell'intarsio, molto affine a quella dello scultore, faceva dell'ebanista un artigiano molto apprezzato. Alcuni maestri dell'intarsio divennero specialisti preziosi e ricercati.

Nella concezione dei nostri vecchi maestri il legno aveva un'anima; prima di iniziare l'intarsio, si mettevano all'ascolto delle voci che sembrava venissero fuori dal materiale ligneo. Silenzio, pazienza e ascolto sono virtù spesso dimenticate dalla frenetica vita odierna. In una realtà priva di attenzione e capacità di ascolto, piena solo di una delirante vanità espressiva, gli artisti di oggi usano sempre meno il legno, sostituendolo con materiali moderni, scintillanti, duttili, agevoli da modellare e piegare in forme e disegni, ma senza quell'anima antica. Come nelle libere professioni di stampo borghese le caste degli avvocati, dei medici, dei farmacisti e via dicendo si autorigeneravano di padre in figlio grazie alla puntuale tradizione di famiglia e al sostegno dell'apparato legislativo - amministrativo, così nell'universo delle attività artigianali il mestiere del falegname si tramandava di generazione in generazione affinandosi sempre di più fino a toccare le vette dell'espressione artistica.
A questa considerazione si perviene osservando l'esperienza nel lavoro di falegname di Pasquale Marsico, sposato con la coetanea Lucia Passidomo, che possedeva una falegnameria in via Giacomo Lupis, 12. Il terzo di quattro fratelli, tra i quali si conta il padre francescano Massimiliano in forza al Convento di San Giovanni Rotondo, Pasquale ereditò l'arte che era stata esercitata già dal suo bisnonno, quindi dal nonno Antonio e da suo padre Tobia nel piccolo laboratorio in zona Fornaci.

Ad essere precisi la sua qualifica è stata quella di ebanista poiché lavorava il legno nobile (mogano, noce, palissandro) in un'epoca contraddistinta dal prevalente lavoro manuale con l'ausilio di pochi indispensabili attrezzi. In particolare diventò uno specialista nella fabbricazione dei mobili. Entrò nella bottega paterna a undici anni nell'immediato dopoguerra, quando l'economia gravinese era di impronta prevalentemente rurale, con una miriade di braccianti agricoli che vivevano alla giornata e pochi benestanti latifondisti. La falegnameria si occupava innanzitutto della manutenzione di portoni, finestre e serramenti vari che all'epoca erano di dimensioni abnormi e rigorosamente di legno, a volte con rinforzi in metallo come osserviamo nei monumentali ingressi dei palazzi di quei tempi. Si andava persino in campagna per effettuare riparazioni e ripristini vari nelle masserie dei facoltosi agrari, come la masseria Bella Filippa dei conti Federici.
L' abitazione di famiglia era ubicata in via Pasquale Cassese, di fianco a quella dei Pontrelli, in pieno centro storico nei pressi della chiesa di San Nicola, vale a dire in un quartiere dove le botteghe artigiane erano piuttosto numerose. In altri termini quella zona centrale era il cuore pulsante dell'artigianato locale ed era piena di gente, era ordinata e funzionale, non la fotografia del degrado architettonico cui tanti anni di abbandono l'hanno costretta. I mobili in legno pregiato scolpiti a mano e finemente intarsiati andavano ad impreziosire le case delle famiglie più in vista del paese: il farmacista Ruggeri, il farmacista Ninivaggi che comprò dal primo la farmacia al lato della chiesa di San Nicola, il barone De Gemmis, il conte Federici. E tantissimi altri clienti, i quali ordinavano alla falegnameria anche le finestre. Quella falegnameria ha svolto lavori di manutenzione anche nel palazzo vescovile, negli anni cinquanta, quando sedeva su quel soglio Monsignor Aldo Forzoni che rivoltò come un guanto l'organizzazione clericale che aveva messo radici profonde nel territorio diocesano.

Quando l'abilità artigianale divenne più matura e pubblicamente riconosciuta, Marsico si dedicò con slancio ai lavori di restauro commissionati dalla Soprintendenza per i Beni Artistici di Bari, alla quale l'artigiano fu introdotto dal professor Angelo Amodio che contribuì molto a far risorgere negli anni del dopoguerra le competenze di quell'amministrazione regionale. Su sua sollecitazione, la Soprintendenza si avvalse anche della partecipazione nei lavori di restauro del falegname Michele Laiso che possedeva una bottega in via Pietro Ianora. I due ebanisti di Gravina hanno eseguito in quegli anni importanti lavori di restauro: in Puglia nel 1960, durante il vescovado di Monsignor Giuseppe Vairo, il coro cinquecentesco della Cattedrale Santa Maria Assunta e il bancone della sacrestia risalente al Settecento, l'altare della famiglia Orsini presente nella chiesa di San Sebastiano (locale a sinistra dell'ingresso); ad Altamura l'antiporta della Cattedrale; in Basilicata la chiesa di San Nicola a Lauria Superiore e la chiesa di San Giacomo a Lauria Inferiore.
I lavori di restauro venivano effettuati principalmente d'estate, quando si ingaggiavano più operai e la temperatura faceva asciugare più in fretta i prodotti chimici utilizzati. Mentre nel resto dell'anno si realizzavano i lavori per conto della clientela comune. Nella bottega di Pasquale, nei tempi d'oro, trovavano occupazione fino a sei operai, in regola dal punto di vista contrattuale in quanto le commesse della Soprintendenza imponevano il rispetto delle leggi sul lavoro; in più il maestro Marsico accoglieva come apprendisti fino al massimo di tre ragazzi. Con gli operai e gli apprendisti il rapporto era di tipo cordiale e non eccessivamente autoritario, quale era invece lo stile di molti artigiani che non risparmiavano ai malcapitati giovani in corso di apprendimento maniere dure nelle parole e nei gesti, volavano cioè parolacce e scoppole ossia schiaffoni assestati sulla nuca a fini educativi. L'orario di lavoro andava dalle otto alle tredici con una lunga pausa pranzo, quindi riprendeva alle quindici del pomeriggio fino alle ore diciotto o alle ore venti. In totale si trattava di dodici ore al giorno a seconda dell'intensità del lavoro in corso e degli impegni presi con i clienti per la consegna. Comunque il sabato pomeriggio era sacrosanto, non si lavorava e la bottega rimaneva chiusa.

Il successo di Pasquale Marsico è dipeso senz'altro dalla sua abilità e dedizione. Ma a volte queste qualità non si rivelano sufficienti al riscontro positivo da parte della clientela. La fortuna di Pasquale è stata da lui costruita grazie all'attitudine a mantenere buone relazioni con gli altri e all'apertura ad esperienze di diversa natura. È stato infatti dirigente dell'Acai (Associazione Cristiana degli Artigiani Italiani), lontano dall'agonismo politico ha frequentato sempre l'Azione cattolica e la Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), nelle quali era ben accetto mostrando di saper stare insieme in un gruppo con rispetto e spirito collaborativo. In questi ambienti si sono radicate profonde amicizie con esponenti di spicco della società civile. Il lavoro in bottega era serio e duro: la mattina bisognava preparare i ripiani da incollare, le ante degli armadi lavorate a nido d'api. Piallare, verniciare e usare i comuni strumenti di lavoro: seghe, piallatrici, compressori per la verniciatura a spruzzo. Gravina disponeva di una classe di artigiani di prima qualità come i falegnami Laiso, Portagnuolo e Ceci, per citarne solo una minima parte.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine di un antico falegname di Gravina in Puglia.
  • Michele Gismundo
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