Mestieri e società
IL MUGNAIO - u mulenêre
Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli
sabato 20 aprile 2024
I mugnai hanno imperato fino agli anni ottanta. Con il traino e la carretta trasportavano grano al mulino e farina ai forni. A qualsiasi ora della giornata erano lì, per strada, a trasportare la materia prima per il mulino: le famiglie consegnavano una certa quantità di grano e ricevevano di ritorno una certa quantità di farina, semola e crusca, pagando ovviamente il compenso per quella trasformazione. La crusca veniva utilizzata per uso zootecnico. Il lavoro del mugnaio rientra fra le più antiche occupazioni dell'uomo. Al mulino si affiancava a volte il forno per panificare. Un bravo mugnaio possedeva utili conoscenze sull'arte bianca: sapeva selezionare con cura il grano per la semina e preparava con attenzione la farina di buona qualità, dal colore e dal sapore inconfondibili.
Un mestiere antico in via d'estinzione a causa delle produzioni industriali, che hanno abbandonato le classiche macine in pietra con risultati però non certo paragonabili a quelli artigianali di una volta. Nella società rurale di quei tempi i mugnai erano spesso più ricchi dei normali contadini, tanto da essere fatti segno di invidia e spesso presi di mira nei saccheggi del pane durante le annate di carestia. Erano sicuramente in una posizione più forte nei confronti dei proprietari terrieri, rispetto ai poveri contadini. Si ponevano come intermediari tra i contadini che producevano e quelli che, padroni e non, consumavano il prodotto. Il loro stato sociale si collocava a metà strada tra il popolo e i padroni. Il mugnaio poteva considerarsi un borghese, un conoscitore di due mondi. Il primo, quello contadino, di cui conosceva i bisogni, le furbizie, le tecniche colturali, i modi di lavorare, i prodotti. Il secondo, quello dei possidenti, col quale trattava, se non da pari, almeno senza l'ossequio servile dei lavoratori della terra e col quale decideva talvolta le scelte amministrative.
Chi non ricorda che era stato mugnaio lo stesso senatore Francesco Stefanelli che fu sindaco di Gravina e senatore della Repubblica? Così anche il sindaco Vito Laddaga aveva lavorato nel mulino.
Oggi siamo abituati a comprare la farina nei supermercati e a usarla in cucina più o meno quotidianamente. Le farine di grano tenero sono le più usate a livello mondiale nella produzione di prodotti da forno e di pasta, ma in Italia c'è anche una buona produzione di farine di grano duro molto diffuse nel Sud per le tipiche caratteristiche climatiche. I mulini moderni sono dotati di appositi silos che permettono di stoccare il grano in maniera sicura e a temperatura controllata per evitare contaminazioni da funghi e batteri. Oggi il grano è costantemente ventilato e pulito mediante getti d' aria. Alcuni mulini effettuano il lavaggio per eliminare le impurità e inumidire i chicchi. Le altre farine ottenute sono classificate con una cifra numerica che indica il grado di abburattamento, vale a dire la percentuale, in peso, di farina che si estrae da cento parti di cereale, eliminando in vario grado la crusca (tale percentuale è compresa tra il 75 e l'80 per cento). Le farine di tipo due e di tipo uno sono farine semi-integrali che contengono minori percentuali di crusca. Le farine di tipo zero e di tipo doppio zero sono prodotti parecchio raffinati e riconoscibili dal colore bianco candido, caratteristica data appunto dal grado elevato di abburattamento. Contrariamente a quanto si pensi, la differenza fra una farina di tipo zero e una di tipo doppio zero è davvero irrisoria. Il mugnaio era l'esperto, il conoscitore delle tecniche di lavorazione e dei tanti accorgimenti per ottenere quel prodotto così semplice ma così importante per una sana alimentazione come la farina.
La figura del mugnaio prima descritta risulta piuttosto storicamente datata, appare confinabile alla realtà di fine ottocento e delle prime decadi del secolo successivo, quando l'industrializzazione e gli investimenti capitalistici non erano ancora diffusi, soprattutto nelle regioni meridionali. I capitali erano quelli delle famiglie benestanti o, in mancanza, quelli che il caso o la fortuna aveva fatto rinvenire inaspettatamente. Le voci del popolo nel nostro paese avevano talvolta attribuito l'improvviso arricchimento di alcuni nomi in vista della comunità al ritrovamento di un vero e proprio tesoro nascosto o abbandonato dai tedeschi in fuga dopo l'8 settembre del 1943. Forse lo facevano con malcelata ironia o può darsi che tali fantasie traessero spunto dalla letteratura. Nel romanzo Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, quell'onest'uomo di Lazzaro Scacerni acquista un vecchio mulino sulle rive del fiume grazie alle rivelazioni di un ufficiale italiano e a un compromesso dell'anima poiché vendette la refurtiva di un saccheggio sacrilego al Raguseo, noto ricettatore ferrarese.
Quando a Gravina misero piede gli esponenti della famiglia Divella da Rutigliano, l'attività artigianale della molitura dei cereali si trasformò in una vera e propria industria, sicché al mugnaio tradizionale furono sottratti alcuni compiti di natura più prettamente imprenditoriale. Allora mugnaio diventò la qualifica degli operai che lavoravano nei mulini di concezione più moderna. È a questo punto che bisogna collocare la storia del nostro mugnaio gravinese.
Filippo Giordano ha svolto il lavoro di mugnaio da bambino, in quanto suo padre Francesco, che esercitava lo stesso mestiere, lo portò d'imperio con sé dopo la conclusione della quinta classe elementare.1 È coniugato con Anna D'Attolico, donna risoluta e piena di energia. La coppia ha messo al mondo sei figli, di cui tre scomparsi prematuramente. Nessuno di loro ha continuato l'attività paterna, anche perché nel frattempo i mulini chiudevano favorendo la graduale estinzione dei mugnai. Filippo fu presentato dal papà al Commendatore Salvatore Divella il quale, oltre al mulino, possedeva un negozio in cui vendeva la farina. Il piccolo cominciò ad affiancare il padre, andando in giro sul traino a raccogliere il grano da macinare e a riportare la farina a casa dei clienti. L'arte l'ha imparata man mano che cresceva la sua abilità e man mano che gli venivano affidate ulteriori mansioni all'interno dello stabilimento. Così ha fatto anche il cilindrista, ponendo i sacchi sotto i cilindri e prestando attenzione alla fase di riempimento nonché alla distinzione tra i prodotti buoni (farina e semola) e gli scarti della lavorazione costituiti essenzialmente dalla crusca. Ha svolto inoltre la funzione di capoturno. Però nessuna attività di intermediazione tra i clienti, che pagavano al contabile del mulino, e il datore di lavoro, che assicurava la periodica retribuzione all'operaio. In una prima fase, gli operai erano associati ad una cooperativa per l'attribuzione degli assegni familiari. Successivamente fu l'impresa a farsi carico dell'intero trattamento economico e previdenziale.
Ma quello che legava Filippo al Commendatore Divella non era solo un contratto di lavoro, bensì un autentico rapporto di fiducia. La presenza del Commendatore sul luogo di lavoro era pressoché quotidiana e le relazioni con gli operai più assidui e fedeli erano di tipo confidenziale. Quando l'imprenditore si affacciava ad osservare gli operai che trascorrevano la pausa pranzo consumando il contenuto semplice e genuino dei fagotti e delle scodelle portate da casa, esclamava: - che bella vita, eh! Chi sta meglio di voi senza preoccupazioni? E Filippo rintuzzava: - allora, ci scambiamo i posti? Io faccio il padrone e tu il mugnaio? Domanda senza risposta, sia il primo che il secondo finivano per ridere. Molte volte Filippo accompagnava a scuola Eloisa, la figlia più piccola del Commendatore. Filippo ha lavorato sia da Divella che nel mulino di Leonardo Centrone, l'imprenditore grumese che lo acquistò dalla famiglia Ciciolla.
Ed è, infatti, in quest'ultima azienda che si è pensionato a metà deli anni ottanta, che non aveva compiuto ancora i sessant'anni. Del resto aveva cominciato a lavorare molto giovane e ha accusato una diminuzione dell'udito a causa del forte rumore delle macine. La vita non è stata sempre tenera e clemente con Filippo. Alla morte prematura di suo padre Francesco, all'età di cinquantadue anni, ha dovuto farsi carico delle sorti della famiglia, tentando, già sposato con due figli, una soluzione con il trasferimento a Milano, dove lavorò a Porta Romana in un grande mulino. Per lui l'esperienza fu molto breve, mentre gli altri fratelli ebbero più fortuna e si stabilirono definitivamente in quella città. L' attendevano a Gravina il mulino Centrone e le sue occupazioni abituali, come quella di collaborare all'organizzazione della squadra di calcio locale. Frequentava anche la chiesa e fu legato da amicizia con don Angelo Casino. Il ricordo del lavoro svolto al mulino ancora ritorna ogni tanto piacevolmente. Le sirene di Divella che risuonavano ad ogni turno in tutto il paese. La paga era sicura e la faceva bastare per tutta la famiglia. Riceveva in compenso anche della farina che sua moglie Anna utilizzava al meglio, impastando, talvolta, fino a otto forme di pane in una giornata da consegnare al fornaio per la cottura. Lo sostenevano il suo ottimismo e l'innata allegria. La sera, alle ventidue, le macine del mulino cessavano di girare. Allora Lui e i sui colleghi più stretti - tale Pisciottani e Giovanni Stefanelli – salivano fino al quarto piano con l'ascensore (montacarichi) per riempire di crusca un grande sacco. Quindi sistemavano quel sacco, senza legarlo, davanti alla porta del montacarichi. Gli operai che montavano il turno delle quattro della mattina successiva si portavano fino al piano superiore ma, all'apertura del montacarichi, venivano investiti dalla crusca senza poter uscire; così erano costretti a scendere di un piano per ripulirsi e andare a sgombrare quella via d'uscita.
I mulini si diffusero in paese perché si calavano in una zona agricola, abbastanza ampia, destinata alla coltivazione soprattutto del frumento di grano duro. Numerosi erano i proprietari terrieri di una certa dimensione ed era una grande opportunità per il mulino accaparrarsi la raccolta di quegli agrari. Esempio tangibile dell'importanza di Gravina come centro di produzione cerealicola fu la costruzione, in epoca fascista, del silos granario in via Spinazzola, vicino al Consorzio Agrario che accentuava ulteriormente il profilo economico-produttivo della città. Quei due complessi hanno subito una fine ingloriosa, in quanto il Silos è stato demolito e, al suo posto, sta sorgendo un moderno edificio residenziale. Il Consorzio è stato svuotato, salvando i muri esterni in tufo, per ospitare due grandi magazzini. I mulini di vecchia concezione sono stati tutti gradualmente chiusi o demoliti, in quanto la generazione dei proprietari che li avevano costruiti e gestiti non si è autoriprodotta in mancanza di rampolli in grado di dare continuità all'impresa di famiglia.
Comunque la scomparsa dei mulini tradizionali è da ascrivere anche ai cambiamenti della tecnologia, alle regole del mercato capitalistico e alle più onerose conquiste sindacali poste a tutela delle maestranze. Per fortuna oggi risaltano realtà industriali, nel settore della trasformazione agricola, di primo piano a livello nazionale e internazionale, come la S.p.A. Andriani. Resta in piedi, ancora per poco, l'ultimo fabbricato del mulino Divella che, ai tempi gloriosi della Pasta Diva, rappresentava per Gravina l'unico esempio di stabilimento industriale. Le sirene della fabbrica, azionate a tutto spiano per richiamare gli operai al turno di lavoro, entravano in competizione con le campane delle tante chiese della città che richiamavano invece, i paesani a partecipare alle funzioni religiose.
Meritano un richiamo le vicende del Mulino Divella a cent'anni dall'apertura, come narrate dal nipote omonimo. Nel '48, nel pieno fervore dell'attività industriale, si verifica un tragico evento: una massa crescente di disoccupati in sciopero per l'attentato all'on. Palmiro Togliatti del 16 luglio 1948 assedia la fabbrica, chiede che si fermi immediatamente il processo produttivo. Don Salvatore – così come lo chiamavano tutti – comunica che tutte le macchine sarebbero state arrestate alla fine del turno successivo. Intervengono le forze dell'ordine ma la situazione degenera: a causa dei tafferugli perdono la vita un agitatore coratino e il giovane carabiniere Antonio Bonavita.
A distanza di diverse settimane muoiono, in nosocomi baresi, anche due braccianti gravinesi da tempo feriti, che alcune fonti, non meglio documentate, ancora oggi mettono nel conto dei morti in relazione ai fatti del 15 luglio. I responsabili dei fatti e le precise dinamiche dell'accaduto rimarranno ignoti.
Nel '49 la svolta aziendale: entrano in funzione i nuovi macchinari Buhler, i primi prototipi a trasporto pneumatico, i primi al mondo. Si moltiplicano in fretta produzione e fatturati, si allargano i mercati verso l'Argentina e il Nord America. Don Salvatore assicura la sua presenza ovunque, in tutte le fiere nazionali e internazionali. È punto di riferimento dell'industria molitoria italiana. Si moltiplicano in quegli anni del cosiddetto miracolo economico italiano le promozioni aziendali di Salvatore Divella: la canzone popolare Salve Diva, incisa su disco da Nilla Pizzi con musica del maestro Domenico Elia, diventa un brano di successo; la polisportiva calcio Salve Diva è all'apice dei successi sportivi come la Prima Categoria Regionale degli anni sessanta. In quegli anni di rinascita economica dell'Italia nell'azienda gravinese lavorano più di 600 persone, tra dirigenti, impiegati ed operai, nonché centinaia di collaboratori esterni, tra fabbri, falegnami, idraulici, elettricisti, tornitori, carpentieri, chimici, geometri e periti industriali.
Negli anni settanta succede qualcosa, molti ed interessanti progetti vengono accantonati per sempre, a causa della stagione delle rivendicazioni sindacali, con l'entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300), cui fanno seguito le grandi vertenze davanti alla magistratura. Tutta l'attività produttiva viene irreparabilmente danneggiata. Indebolito e deluso dagli eventi don Salvatore, all'età di settantadue anni, è preda di una grave crisi ischemica: scelse di togliersi la vita nell'androne della sua vecchia abitazione il 9 gennaio 1977.
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine: illustrazione dell'artista Marilena Paternoster
N.B.
Il concittadino e anziano mugnaio Filippo Giordano (1929 - 2023) è stato intervistato dagli autori del libro il 12 dicembre 2022 in via Ferrante Maddalena, 46 a Gravina in Puglia. È deceduto nel 2023, poco prima dell'uscita del volume.
Un mestiere antico in via d'estinzione a causa delle produzioni industriali, che hanno abbandonato le classiche macine in pietra con risultati però non certo paragonabili a quelli artigianali di una volta. Nella società rurale di quei tempi i mugnai erano spesso più ricchi dei normali contadini, tanto da essere fatti segno di invidia e spesso presi di mira nei saccheggi del pane durante le annate di carestia. Erano sicuramente in una posizione più forte nei confronti dei proprietari terrieri, rispetto ai poveri contadini. Si ponevano come intermediari tra i contadini che producevano e quelli che, padroni e non, consumavano il prodotto. Il loro stato sociale si collocava a metà strada tra il popolo e i padroni. Il mugnaio poteva considerarsi un borghese, un conoscitore di due mondi. Il primo, quello contadino, di cui conosceva i bisogni, le furbizie, le tecniche colturali, i modi di lavorare, i prodotti. Il secondo, quello dei possidenti, col quale trattava, se non da pari, almeno senza l'ossequio servile dei lavoratori della terra e col quale decideva talvolta le scelte amministrative.
Chi non ricorda che era stato mugnaio lo stesso senatore Francesco Stefanelli che fu sindaco di Gravina e senatore della Repubblica? Così anche il sindaco Vito Laddaga aveva lavorato nel mulino.
Oggi siamo abituati a comprare la farina nei supermercati e a usarla in cucina più o meno quotidianamente. Le farine di grano tenero sono le più usate a livello mondiale nella produzione di prodotti da forno e di pasta, ma in Italia c'è anche una buona produzione di farine di grano duro molto diffuse nel Sud per le tipiche caratteristiche climatiche. I mulini moderni sono dotati di appositi silos che permettono di stoccare il grano in maniera sicura e a temperatura controllata per evitare contaminazioni da funghi e batteri. Oggi il grano è costantemente ventilato e pulito mediante getti d' aria. Alcuni mulini effettuano il lavaggio per eliminare le impurità e inumidire i chicchi. Le altre farine ottenute sono classificate con una cifra numerica che indica il grado di abburattamento, vale a dire la percentuale, in peso, di farina che si estrae da cento parti di cereale, eliminando in vario grado la crusca (tale percentuale è compresa tra il 75 e l'80 per cento). Le farine di tipo due e di tipo uno sono farine semi-integrali che contengono minori percentuali di crusca. Le farine di tipo zero e di tipo doppio zero sono prodotti parecchio raffinati e riconoscibili dal colore bianco candido, caratteristica data appunto dal grado elevato di abburattamento. Contrariamente a quanto si pensi, la differenza fra una farina di tipo zero e una di tipo doppio zero è davvero irrisoria. Il mugnaio era l'esperto, il conoscitore delle tecniche di lavorazione e dei tanti accorgimenti per ottenere quel prodotto così semplice ma così importante per una sana alimentazione come la farina.
La figura del mugnaio prima descritta risulta piuttosto storicamente datata, appare confinabile alla realtà di fine ottocento e delle prime decadi del secolo successivo, quando l'industrializzazione e gli investimenti capitalistici non erano ancora diffusi, soprattutto nelle regioni meridionali. I capitali erano quelli delle famiglie benestanti o, in mancanza, quelli che il caso o la fortuna aveva fatto rinvenire inaspettatamente. Le voci del popolo nel nostro paese avevano talvolta attribuito l'improvviso arricchimento di alcuni nomi in vista della comunità al ritrovamento di un vero e proprio tesoro nascosto o abbandonato dai tedeschi in fuga dopo l'8 settembre del 1943. Forse lo facevano con malcelata ironia o può darsi che tali fantasie traessero spunto dalla letteratura. Nel romanzo Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, quell'onest'uomo di Lazzaro Scacerni acquista un vecchio mulino sulle rive del fiume grazie alle rivelazioni di un ufficiale italiano e a un compromesso dell'anima poiché vendette la refurtiva di un saccheggio sacrilego al Raguseo, noto ricettatore ferrarese.
Quando a Gravina misero piede gli esponenti della famiglia Divella da Rutigliano, l'attività artigianale della molitura dei cereali si trasformò in una vera e propria industria, sicché al mugnaio tradizionale furono sottratti alcuni compiti di natura più prettamente imprenditoriale. Allora mugnaio diventò la qualifica degli operai che lavoravano nei mulini di concezione più moderna. È a questo punto che bisogna collocare la storia del nostro mugnaio gravinese.
Filippo Giordano ha svolto il lavoro di mugnaio da bambino, in quanto suo padre Francesco, che esercitava lo stesso mestiere, lo portò d'imperio con sé dopo la conclusione della quinta classe elementare.1 È coniugato con Anna D'Attolico, donna risoluta e piena di energia. La coppia ha messo al mondo sei figli, di cui tre scomparsi prematuramente. Nessuno di loro ha continuato l'attività paterna, anche perché nel frattempo i mulini chiudevano favorendo la graduale estinzione dei mugnai. Filippo fu presentato dal papà al Commendatore Salvatore Divella il quale, oltre al mulino, possedeva un negozio in cui vendeva la farina. Il piccolo cominciò ad affiancare il padre, andando in giro sul traino a raccogliere il grano da macinare e a riportare la farina a casa dei clienti. L'arte l'ha imparata man mano che cresceva la sua abilità e man mano che gli venivano affidate ulteriori mansioni all'interno dello stabilimento. Così ha fatto anche il cilindrista, ponendo i sacchi sotto i cilindri e prestando attenzione alla fase di riempimento nonché alla distinzione tra i prodotti buoni (farina e semola) e gli scarti della lavorazione costituiti essenzialmente dalla crusca. Ha svolto inoltre la funzione di capoturno. Però nessuna attività di intermediazione tra i clienti, che pagavano al contabile del mulino, e il datore di lavoro, che assicurava la periodica retribuzione all'operaio. In una prima fase, gli operai erano associati ad una cooperativa per l'attribuzione degli assegni familiari. Successivamente fu l'impresa a farsi carico dell'intero trattamento economico e previdenziale.
Ma quello che legava Filippo al Commendatore Divella non era solo un contratto di lavoro, bensì un autentico rapporto di fiducia. La presenza del Commendatore sul luogo di lavoro era pressoché quotidiana e le relazioni con gli operai più assidui e fedeli erano di tipo confidenziale. Quando l'imprenditore si affacciava ad osservare gli operai che trascorrevano la pausa pranzo consumando il contenuto semplice e genuino dei fagotti e delle scodelle portate da casa, esclamava: - che bella vita, eh! Chi sta meglio di voi senza preoccupazioni? E Filippo rintuzzava: - allora, ci scambiamo i posti? Io faccio il padrone e tu il mugnaio? Domanda senza risposta, sia il primo che il secondo finivano per ridere. Molte volte Filippo accompagnava a scuola Eloisa, la figlia più piccola del Commendatore. Filippo ha lavorato sia da Divella che nel mulino di Leonardo Centrone, l'imprenditore grumese che lo acquistò dalla famiglia Ciciolla.
Ed è, infatti, in quest'ultima azienda che si è pensionato a metà deli anni ottanta, che non aveva compiuto ancora i sessant'anni. Del resto aveva cominciato a lavorare molto giovane e ha accusato una diminuzione dell'udito a causa del forte rumore delle macine. La vita non è stata sempre tenera e clemente con Filippo. Alla morte prematura di suo padre Francesco, all'età di cinquantadue anni, ha dovuto farsi carico delle sorti della famiglia, tentando, già sposato con due figli, una soluzione con il trasferimento a Milano, dove lavorò a Porta Romana in un grande mulino. Per lui l'esperienza fu molto breve, mentre gli altri fratelli ebbero più fortuna e si stabilirono definitivamente in quella città. L' attendevano a Gravina il mulino Centrone e le sue occupazioni abituali, come quella di collaborare all'organizzazione della squadra di calcio locale. Frequentava anche la chiesa e fu legato da amicizia con don Angelo Casino. Il ricordo del lavoro svolto al mulino ancora ritorna ogni tanto piacevolmente. Le sirene di Divella che risuonavano ad ogni turno in tutto il paese. La paga era sicura e la faceva bastare per tutta la famiglia. Riceveva in compenso anche della farina che sua moglie Anna utilizzava al meglio, impastando, talvolta, fino a otto forme di pane in una giornata da consegnare al fornaio per la cottura. Lo sostenevano il suo ottimismo e l'innata allegria. La sera, alle ventidue, le macine del mulino cessavano di girare. Allora Lui e i sui colleghi più stretti - tale Pisciottani e Giovanni Stefanelli – salivano fino al quarto piano con l'ascensore (montacarichi) per riempire di crusca un grande sacco. Quindi sistemavano quel sacco, senza legarlo, davanti alla porta del montacarichi. Gli operai che montavano il turno delle quattro della mattina successiva si portavano fino al piano superiore ma, all'apertura del montacarichi, venivano investiti dalla crusca senza poter uscire; così erano costretti a scendere di un piano per ripulirsi e andare a sgombrare quella via d'uscita.
I mulini si diffusero in paese perché si calavano in una zona agricola, abbastanza ampia, destinata alla coltivazione soprattutto del frumento di grano duro. Numerosi erano i proprietari terrieri di una certa dimensione ed era una grande opportunità per il mulino accaparrarsi la raccolta di quegli agrari. Esempio tangibile dell'importanza di Gravina come centro di produzione cerealicola fu la costruzione, in epoca fascista, del silos granario in via Spinazzola, vicino al Consorzio Agrario che accentuava ulteriormente il profilo economico-produttivo della città. Quei due complessi hanno subito una fine ingloriosa, in quanto il Silos è stato demolito e, al suo posto, sta sorgendo un moderno edificio residenziale. Il Consorzio è stato svuotato, salvando i muri esterni in tufo, per ospitare due grandi magazzini. I mulini di vecchia concezione sono stati tutti gradualmente chiusi o demoliti, in quanto la generazione dei proprietari che li avevano costruiti e gestiti non si è autoriprodotta in mancanza di rampolli in grado di dare continuità all'impresa di famiglia.
Comunque la scomparsa dei mulini tradizionali è da ascrivere anche ai cambiamenti della tecnologia, alle regole del mercato capitalistico e alle più onerose conquiste sindacali poste a tutela delle maestranze. Per fortuna oggi risaltano realtà industriali, nel settore della trasformazione agricola, di primo piano a livello nazionale e internazionale, come la S.p.A. Andriani. Resta in piedi, ancora per poco, l'ultimo fabbricato del mulino Divella che, ai tempi gloriosi della Pasta Diva, rappresentava per Gravina l'unico esempio di stabilimento industriale. Le sirene della fabbrica, azionate a tutto spiano per richiamare gli operai al turno di lavoro, entravano in competizione con le campane delle tante chiese della città che richiamavano invece, i paesani a partecipare alle funzioni religiose.
Meritano un richiamo le vicende del Mulino Divella a cent'anni dall'apertura, come narrate dal nipote omonimo. Nel '48, nel pieno fervore dell'attività industriale, si verifica un tragico evento: una massa crescente di disoccupati in sciopero per l'attentato all'on. Palmiro Togliatti del 16 luglio 1948 assedia la fabbrica, chiede che si fermi immediatamente il processo produttivo. Don Salvatore – così come lo chiamavano tutti – comunica che tutte le macchine sarebbero state arrestate alla fine del turno successivo. Intervengono le forze dell'ordine ma la situazione degenera: a causa dei tafferugli perdono la vita un agitatore coratino e il giovane carabiniere Antonio Bonavita.
A distanza di diverse settimane muoiono, in nosocomi baresi, anche due braccianti gravinesi da tempo feriti, che alcune fonti, non meglio documentate, ancora oggi mettono nel conto dei morti in relazione ai fatti del 15 luglio. I responsabili dei fatti e le precise dinamiche dell'accaduto rimarranno ignoti.
Nel '49 la svolta aziendale: entrano in funzione i nuovi macchinari Buhler, i primi prototipi a trasporto pneumatico, i primi al mondo. Si moltiplicano in fretta produzione e fatturati, si allargano i mercati verso l'Argentina e il Nord America. Don Salvatore assicura la sua presenza ovunque, in tutte le fiere nazionali e internazionali. È punto di riferimento dell'industria molitoria italiana. Si moltiplicano in quegli anni del cosiddetto miracolo economico italiano le promozioni aziendali di Salvatore Divella: la canzone popolare Salve Diva, incisa su disco da Nilla Pizzi con musica del maestro Domenico Elia, diventa un brano di successo; la polisportiva calcio Salve Diva è all'apice dei successi sportivi come la Prima Categoria Regionale degli anni sessanta. In quegli anni di rinascita economica dell'Italia nell'azienda gravinese lavorano più di 600 persone, tra dirigenti, impiegati ed operai, nonché centinaia di collaboratori esterni, tra fabbri, falegnami, idraulici, elettricisti, tornitori, carpentieri, chimici, geometri e periti industriali.
Negli anni settanta succede qualcosa, molti ed interessanti progetti vengono accantonati per sempre, a causa della stagione delle rivendicazioni sindacali, con l'entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300), cui fanno seguito le grandi vertenze davanti alla magistratura. Tutta l'attività produttiva viene irreparabilmente danneggiata. Indebolito e deluso dagli eventi don Salvatore, all'età di settantadue anni, è preda di una grave crisi ischemica: scelse di togliersi la vita nell'androne della sua vecchia abitazione il 9 gennaio 1977.
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine: illustrazione dell'artista Marilena Paternoster
N.B.
Il concittadino e anziano mugnaio Filippo Giordano (1929 - 2023) è stato intervistato dagli autori del libro il 12 dicembre 2022 in via Ferrante Maddalena, 46 a Gravina in Puglia. È deceduto nel 2023, poco prima dell'uscita del volume.