Mestieri e società
IL POTATORE - u spruataure
Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli
sabato 23 marzo 2024
I nostri contadini non tralasciano mai di potare gli alberi, specie gli ulivi, perché da tale azione dipendono la quantità e la qualità del raccolto. Il potatore deve possedere una buona conoscenza delle piante e dei loro cicli di fioritura e fruttificazione, inoltre deve saper usare gli arnesi specifici per questo lavoro. Si avvale soprattutto di forbici o coltelli particolari da innesto, adopera la sega e l'accetta piccola, l'accettùdde, per modificare o correggere la forma della chioma, facendo in modo che i rami vecchi e grossi cedano il posto a quelli giovani. L' intervento è annuale e di solito prima di operare si attende la raccolta delle olive, delle mandorle, delle ciliegie. Oggi questo mestiere manuale si sta ridimensionando, visto che l'uso di macchinari permette ai titolari delle aziende agricole un notevole risparmio di costi di gestione e di tempo. Ma la precisione non è la stessa.
In passato il potatore si spostava per le campagne con un mulo, munito di una scala alta che poteva essere di varia altezza a seconda della grandezza dell'albero da spuntare. Al termine del lavoro si raccoglievano i rami tagliati e si facevano ardere per ricavarne della carbonella. Il potatore è anche esperto di innesti, cioè trapianta germogli di piante più giovani, che danno frutti di maggiore qualità. Con un taglio praticato con il coltello, il potatore crea una fessura nella quale impianta il germoglio; questo viene assicurato alla pianta mediante una legatura effettuata con fili di erba o spago. La potatura è fondamentale per la crescita sana e ordinata delle piante ed è strettamente correlato all'attività dell'agricoltore al quale deve assicurare la produttività delle piantagioni. Il potatore è una figura di secondo livello rispetto al coltivatore ed è spesso lo stesso agricoltore che si specializza nel trattamento manutentivo degli alberi e degli arbusti impiantati nei propri terreni.
In questo profilo si inquadra la figura di Giuseppe Urgo che è stato innanzitutto un viticoltore, premiato dalla regione Puglia nel 2017 come Biopatriarca della viticoltura. Egli associa a tale qualifica - ereditata dal padre Giovanni e dal nonno Domenico, classe 1883 - quella di provetto potatore, specializzazione acquisita sul campo e applicata proficuamente ai suoi vigneti e ai suoi alberi di ulivo. Sposato nel 1961 con Anna Leone, ha quattro figli, due maschi e due femmine: Giovanni, Pietro, Maria e Nicoletta. Ha iniziato a lavorare all'età di undici anni insieme al padre abbandonando la scuola alla quarta elementare. La necessità derivava dalla situazione familiare: lui e suo fratello Domenico erano gli unici figli maschi tra nove e dovettero seguire le orme paterne. Tuttavia a Giuseppe restò l'intimo desiderio di continuare gli studi e, a distanza di anni, riuscì a conseguire la licenza media. Si dedicò a scrivere canzoni, poesie e libri di cultura popolare. Nel 1976 fu eletto consigliere e assessore comunale del Partito Comunista Italiano durante i mandati dei sindaci Francesco Stefanelli e Onofrio Petrara. Ha smesso di lavorare nel 2015 per una invalidità intervenuta a seguito del faticoso lavoro svolto.
Giuseppe non si limitava ad usare le braccia nelle proprie coltivazioni, ma prestava i suoi servizi anche ad altri proprietari terrieri, a cominciare dal giudice don Nicola Amato che possedeva una tenuta nella valle del Basento e cinque ettari di vigneto in contrada Selva, subito dopo il Casino di Meninni. Andava a lavorare inoltre i terreni di altri piccoli proprietari, come donna Lina Capozzo. Si spingeva fino a Irsina e a Genzano, oltre che nel metapontino per conto di don Nicola. Dei figli solo Pietro ha deciso di continuare l'attività paterna di viticoltore e potatore. Il lavoro in campagna l'ha imparato osservando attentamente quello che faceva il padre, il quale, al contrario, cercava di invogliarlo a studiare. Ma non c'è stato niente da fare. Quando aveva una decina d'anni, durante le vacanze di Pasqua, montò sulla bicicletta regalatagli dalla nonna e andò a trovare suo padre in campagna. Lo trovò che era in pausa a fare uno spuntino e gli chiese cosa fossero quelle foglie e quei rami sparsi per terra. Suo padre, che sulle prime si meravigliò che non fosse a scuola, gli rispose vagamente che erano rami che non servivano più. Approfittando di una distrazione del padre, Pietro afferrò le forbici e volle provare. Sicuro di non essere visto, salì su di un albero e cominciò a potare, a sforbiciare a più non posso. Quando sopraggiunse suo padre afferrandolo per la collottola era ormai troppo tardi per rimediare a quella radicale opera di riduzione. Dovettero scusarsi con il padrone al quale lasciarono intendere che si trattasse di una nuova forma di potatura. Per loro, padre e figlio, quando si parla di potatura ci si riferisce a quella della vite, dell'ulivo e dei mandorli. I mandorli all'epoca abbondavano nelle campagne di Gravina e lo potevi arguire dai frutti raccolti che si mettevano ad asciugare al sole sui marciapiedi: ovunque giravi per il paese vedevi distese di mandorle come fossero parti di un lungo tappeto marrone.
Negli anni quaranta la vigna si potava con la ronga o roncola, più che con le forbici. Mentre sugli alberi si usavano molto spesso le mani per spezzare i rami teneri. Si usavano inoltre i serracchi ricurvi, a serramanico, che si potevano girare in direzioni opposte. Le forbici si sono diffuse negli anni sessanta. La vite si pota nel periodo da gennaio a marzo, a seconda delle contrade che possono essere più fredde o più calde; mentre l'ulivo si inizia a potare un po' più tardi, ad esempio a febbraio, anche se è più adatto il mese di aprile. Un tempo si guadagnava una miseria, appena dodici lire al giorno negli anni quaranta. A volte i padroni pagavano in natura, cioè con i prodotti della terra, soprattutto con grano e olio dopo la raccolta. Si manteneva a galla chi possedeva terreni di proprietà; invece i braccianti andavano ad ingrossare le file di quelli che aspettavano di essere ingaggiati a giornata.
Intorno al Caffè du Palasidde stazionava ogni sera una gran folla di uomini in cerca di lavoro. Allora si era distinta una vera e propria categoria di potatori bravi: gli Urgo, i Desiante, i Pappalardi, i Lacapria, i D'Addario. Oggi pochissimi sono registrati all'ufficio di collocamento con la qualifica di potatore. Tra questi c'é Pietro Urgo, il quale ha imparato bene il mestiere e non solo; sa spiegare, raccontare con calore le caratteristiche del suo lavoro. Sostiene che occorre conoscere le varietà degli alberi, cogliere il periodo di tempo giusto per intervenire, tenendo conto che ogni albero è diverso dall'altro e che ci sono varietà tardive. Ci vogliono anni e anni di esperienza per imparare il mestiere, facendosi assistere preferibilmente dalle persone più anziane. Va valutata la corretta esposizione al sole e al vento, cercando di bilanciare l'inclinazione dell'albero. Bisogna saper effettuare la potatura di produzione, lasciando i rami fruttiferi e tagliando i succhioni, soprattutto quelli principali che si trovano ai piedi dell'albero, perché i succhioni più in alto col tempo possono diventare fruttiferi. In definitiva la pianta va inquadrata e una potatura ben fatta si nota subito allo sguardo.
La vigna è più delicata e va potata con attenzione, l'olivo è più rognoso. Ai tempi di Giuseppe Urgo gli amici si davano una mano l'un l'altro, evitando così di ricorrere a operai da ricompensare. Gli spostamenti dal paese alla campagna si effettuavano a dorso di asinello e poi di mulo, quindi col traino e, infine, con l'automobile. Negli anni settanta Urgo disponeva finalmente di una 600 FIAT famigliare che gli consentiva di arrivare fino a Metaponto per la cura dei vigneti.
Inaspettatamente nei primi anni ottanta si presenta un'occasione d'oro per gli Urgo padre e figlio e per altri bravi potatori del paese, a dimostrazione che il tempo premia chi ha svolto un'attività con impegno e passione. A Gravina furono ingaggiati 18 esperti potatori per innestare 95 mila piante di Aglianico a Rionero in Vulture (Potenza), in una tenuta di 110 ettari di proprietà dell'on. Emilio Colombo. Fu costituita una apposita impresa con a capo Giuseppe Urgo per controllare che gli innesti fossero effettuati a regola d'arte. Ci vollero tre automobili noleggiate ad hoc per trasferire la squadra di innestatori che portarono in quella località mazzi di gemme. Si sistemarono in una casa messa a disposizione dalla proprietà e l'operazione fu completata in venti giornate. A Pietro Urgo è rimasta una cicatrice sul dito di una mano in ricordo di quella favolosa impresa.
Come succede sempre al termine di una vita di lavoro lunga e faticosa, Giuseppe valuta i benefici dell'opera svolta. Benefici e cambiamenti nella sua posizione sociale non sono mancati. Quando aveva appena dieci anni e fu introdotto alla dura fatica della campagna la sua famiglia, numerosa di ben nove figli, abitava nel centro storico, in via Pietro Ianora. Con il matrimonio si è sollevato pian piano dalle iniziali difficoltà fino a potersi costruire una casa, nelle immediate vicinanze della chiesa di San Matteo, con la cantina e i locali a pianterreno adatti al fabbisogno di chi lavora nei campi e produce una buona quantità di vino. La vigna di proprietà si trova sulla via per Poggiorsini, nella contrada Pavone primo. Negli anni cinquanta, quando Giuseppe era ventenne, la società era ben misera: tanti braccianti affamati e pochissimi padroni agrari, per limitarci al mondo dell'agricoltura.
Il giudice Amato, per il quale lavorava, possedeva mille ettari di coltivazioni solo nella valle del Basento. Anche la famiglia Nardulli non era da meno. Inoltre il numero dei contadini era spaventosamente sproporzionato rispetto ai professionisti, avvocati e medici, rigorosamente figli della borghesia, che erano riveriti e tenuti in grande considerazione dal popolo poiché assicuravano rispettivamente la difesa giuridica, in un ambiente particolarmente causidico come quello di Gravina, e la protezione dalle malattie. In quell'epoca la giornata lavorativa consentiva appena appena di riempirsi la pancia con pane e pasta, mentre la carne era un bisogno che neanche la domenica la gente comune riusciva sempre a soddisfare. Peppino Urgo non si è mai arreso. Ha colmato il deficit di istruzione scolastica leggendo molto e imparando da autodidatta.
Nonostante fosse ancora un ragazzetto, sono rimasti ben impressi nella sua mente gli episodi violenti avvenuti dopo l'8 settembre del 1943. Gli alleati americani di stanza a Gravina non si comportavano sempre a modo, andavano a caccia di donne e approfittavano del vino buono. Alcuni di loro furono uccisi per strada per punire gli oltraggi, altre cattive condotte o in segno di contrapposizione ideologica. Giuseppe Urgo racconta di essersi imbattuto la mattina presto, come in un inciampo, in un canadese riverso a terra davanti al Comune, scannato come una pecora. Inesperto com'era a quella età, gridò forte dallo spavento, andò a chiamare un amico nelle vicinanze, poi accorsero le guardie municipali e i carabinieri. La gente del posto riferì che il malcapitato se ne andava in giro ubriaco, sfottendo tutti e bussando alla porta delle case in cerca di donne.
Un' altra scena di sangue in quel periodo si verificò in piazza della Repubblica, nel Caffè di Ceci: un paesano rimasto calvo nascondeva la pelata sotto una parrucca che non passava inosservata, un soldato americano gliela scippò dalla testa schernendolo. L'offeso tirò fuori il coltello e lo colpì a morte.
Si usciva allora da un regime politico piuttosto brutale e dalla guerra che per il Sud era appena terminata. Il ricorso ad armi da sparo o da taglio non era cosa rara. Fino ai primi anni del dopoguerra si vedevano in giro uomini che trasportavano la legna dal bosco comunale Difesa Grande al paese caricandosela sulle spalle come bestie da soma. Quando arrivavano trafelati alla periferia di Gravina, sostavano presso il muro del cimitero per asciugare con la coppola il sudore della fronte e con questo lavarsi dalle labbra la bava della fatica. Con vestiti rattoppati camminavano scalzi sulle strade selciate del tempo o, nella migliore delle ipotesi, si fasciavano i piedi di stracci. Quella sorte era toccata anni prima anche a una donna, Filippa, chiamata Lipp, la regina del bosco, una bella donna alta e in forze. Abitava nel rione Piaggio con il marito boscaiolo e due figlie. Non potevano campare e perciò Lipp andò a servizio presso una famiglia ricca. Ma non fu per lei una esperienza felice, era sfruttata dai padroni che la tenevano in casa notte e giorno per tutta la settimana concedendole solo una mezza giornata di riposo alla domenica. Alla prima avance del padrone, Lipp si svincolò mollandogli un sonoro ceffone e corse ad abbracciare suo marito. Da quel momento decise di andare anche lei nel bosco a fare legna insieme al marito con fatica e sudore, ma a testa alta. La incrociavi per strada alle prime luci del mattino e la ritrovavi al ritorno carica di fascine che vendeva ai clienti porta a porta, percorrendo le strade del paese. Visse a fino agli anni sessanta.
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine da sito web senza diritti di copyright.
In passato il potatore si spostava per le campagne con un mulo, munito di una scala alta che poteva essere di varia altezza a seconda della grandezza dell'albero da spuntare. Al termine del lavoro si raccoglievano i rami tagliati e si facevano ardere per ricavarne della carbonella. Il potatore è anche esperto di innesti, cioè trapianta germogli di piante più giovani, che danno frutti di maggiore qualità. Con un taglio praticato con il coltello, il potatore crea una fessura nella quale impianta il germoglio; questo viene assicurato alla pianta mediante una legatura effettuata con fili di erba o spago. La potatura è fondamentale per la crescita sana e ordinata delle piante ed è strettamente correlato all'attività dell'agricoltore al quale deve assicurare la produttività delle piantagioni. Il potatore è una figura di secondo livello rispetto al coltivatore ed è spesso lo stesso agricoltore che si specializza nel trattamento manutentivo degli alberi e degli arbusti impiantati nei propri terreni.
In questo profilo si inquadra la figura di Giuseppe Urgo che è stato innanzitutto un viticoltore, premiato dalla regione Puglia nel 2017 come Biopatriarca della viticoltura. Egli associa a tale qualifica - ereditata dal padre Giovanni e dal nonno Domenico, classe 1883 - quella di provetto potatore, specializzazione acquisita sul campo e applicata proficuamente ai suoi vigneti e ai suoi alberi di ulivo. Sposato nel 1961 con Anna Leone, ha quattro figli, due maschi e due femmine: Giovanni, Pietro, Maria e Nicoletta. Ha iniziato a lavorare all'età di undici anni insieme al padre abbandonando la scuola alla quarta elementare. La necessità derivava dalla situazione familiare: lui e suo fratello Domenico erano gli unici figli maschi tra nove e dovettero seguire le orme paterne. Tuttavia a Giuseppe restò l'intimo desiderio di continuare gli studi e, a distanza di anni, riuscì a conseguire la licenza media. Si dedicò a scrivere canzoni, poesie e libri di cultura popolare. Nel 1976 fu eletto consigliere e assessore comunale del Partito Comunista Italiano durante i mandati dei sindaci Francesco Stefanelli e Onofrio Petrara. Ha smesso di lavorare nel 2015 per una invalidità intervenuta a seguito del faticoso lavoro svolto.
Giuseppe non si limitava ad usare le braccia nelle proprie coltivazioni, ma prestava i suoi servizi anche ad altri proprietari terrieri, a cominciare dal giudice don Nicola Amato che possedeva una tenuta nella valle del Basento e cinque ettari di vigneto in contrada Selva, subito dopo il Casino di Meninni. Andava a lavorare inoltre i terreni di altri piccoli proprietari, come donna Lina Capozzo. Si spingeva fino a Irsina e a Genzano, oltre che nel metapontino per conto di don Nicola. Dei figli solo Pietro ha deciso di continuare l'attività paterna di viticoltore e potatore. Il lavoro in campagna l'ha imparato osservando attentamente quello che faceva il padre, il quale, al contrario, cercava di invogliarlo a studiare. Ma non c'è stato niente da fare. Quando aveva una decina d'anni, durante le vacanze di Pasqua, montò sulla bicicletta regalatagli dalla nonna e andò a trovare suo padre in campagna. Lo trovò che era in pausa a fare uno spuntino e gli chiese cosa fossero quelle foglie e quei rami sparsi per terra. Suo padre, che sulle prime si meravigliò che non fosse a scuola, gli rispose vagamente che erano rami che non servivano più. Approfittando di una distrazione del padre, Pietro afferrò le forbici e volle provare. Sicuro di non essere visto, salì su di un albero e cominciò a potare, a sforbiciare a più non posso. Quando sopraggiunse suo padre afferrandolo per la collottola era ormai troppo tardi per rimediare a quella radicale opera di riduzione. Dovettero scusarsi con il padrone al quale lasciarono intendere che si trattasse di una nuova forma di potatura. Per loro, padre e figlio, quando si parla di potatura ci si riferisce a quella della vite, dell'ulivo e dei mandorli. I mandorli all'epoca abbondavano nelle campagne di Gravina e lo potevi arguire dai frutti raccolti che si mettevano ad asciugare al sole sui marciapiedi: ovunque giravi per il paese vedevi distese di mandorle come fossero parti di un lungo tappeto marrone.
Negli anni quaranta la vigna si potava con la ronga o roncola, più che con le forbici. Mentre sugli alberi si usavano molto spesso le mani per spezzare i rami teneri. Si usavano inoltre i serracchi ricurvi, a serramanico, che si potevano girare in direzioni opposte. Le forbici si sono diffuse negli anni sessanta. La vite si pota nel periodo da gennaio a marzo, a seconda delle contrade che possono essere più fredde o più calde; mentre l'ulivo si inizia a potare un po' più tardi, ad esempio a febbraio, anche se è più adatto il mese di aprile. Un tempo si guadagnava una miseria, appena dodici lire al giorno negli anni quaranta. A volte i padroni pagavano in natura, cioè con i prodotti della terra, soprattutto con grano e olio dopo la raccolta. Si manteneva a galla chi possedeva terreni di proprietà; invece i braccianti andavano ad ingrossare le file di quelli che aspettavano di essere ingaggiati a giornata.
Intorno al Caffè du Palasidde stazionava ogni sera una gran folla di uomini in cerca di lavoro. Allora si era distinta una vera e propria categoria di potatori bravi: gli Urgo, i Desiante, i Pappalardi, i Lacapria, i D'Addario. Oggi pochissimi sono registrati all'ufficio di collocamento con la qualifica di potatore. Tra questi c'é Pietro Urgo, il quale ha imparato bene il mestiere e non solo; sa spiegare, raccontare con calore le caratteristiche del suo lavoro. Sostiene che occorre conoscere le varietà degli alberi, cogliere il periodo di tempo giusto per intervenire, tenendo conto che ogni albero è diverso dall'altro e che ci sono varietà tardive. Ci vogliono anni e anni di esperienza per imparare il mestiere, facendosi assistere preferibilmente dalle persone più anziane. Va valutata la corretta esposizione al sole e al vento, cercando di bilanciare l'inclinazione dell'albero. Bisogna saper effettuare la potatura di produzione, lasciando i rami fruttiferi e tagliando i succhioni, soprattutto quelli principali che si trovano ai piedi dell'albero, perché i succhioni più in alto col tempo possono diventare fruttiferi. In definitiva la pianta va inquadrata e una potatura ben fatta si nota subito allo sguardo.
La vigna è più delicata e va potata con attenzione, l'olivo è più rognoso. Ai tempi di Giuseppe Urgo gli amici si davano una mano l'un l'altro, evitando così di ricorrere a operai da ricompensare. Gli spostamenti dal paese alla campagna si effettuavano a dorso di asinello e poi di mulo, quindi col traino e, infine, con l'automobile. Negli anni settanta Urgo disponeva finalmente di una 600 FIAT famigliare che gli consentiva di arrivare fino a Metaponto per la cura dei vigneti.
Inaspettatamente nei primi anni ottanta si presenta un'occasione d'oro per gli Urgo padre e figlio e per altri bravi potatori del paese, a dimostrazione che il tempo premia chi ha svolto un'attività con impegno e passione. A Gravina furono ingaggiati 18 esperti potatori per innestare 95 mila piante di Aglianico a Rionero in Vulture (Potenza), in una tenuta di 110 ettari di proprietà dell'on. Emilio Colombo. Fu costituita una apposita impresa con a capo Giuseppe Urgo per controllare che gli innesti fossero effettuati a regola d'arte. Ci vollero tre automobili noleggiate ad hoc per trasferire la squadra di innestatori che portarono in quella località mazzi di gemme. Si sistemarono in una casa messa a disposizione dalla proprietà e l'operazione fu completata in venti giornate. A Pietro Urgo è rimasta una cicatrice sul dito di una mano in ricordo di quella favolosa impresa.
Come succede sempre al termine di una vita di lavoro lunga e faticosa, Giuseppe valuta i benefici dell'opera svolta. Benefici e cambiamenti nella sua posizione sociale non sono mancati. Quando aveva appena dieci anni e fu introdotto alla dura fatica della campagna la sua famiglia, numerosa di ben nove figli, abitava nel centro storico, in via Pietro Ianora. Con il matrimonio si è sollevato pian piano dalle iniziali difficoltà fino a potersi costruire una casa, nelle immediate vicinanze della chiesa di San Matteo, con la cantina e i locali a pianterreno adatti al fabbisogno di chi lavora nei campi e produce una buona quantità di vino. La vigna di proprietà si trova sulla via per Poggiorsini, nella contrada Pavone primo. Negli anni cinquanta, quando Giuseppe era ventenne, la società era ben misera: tanti braccianti affamati e pochissimi padroni agrari, per limitarci al mondo dell'agricoltura.
Il giudice Amato, per il quale lavorava, possedeva mille ettari di coltivazioni solo nella valle del Basento. Anche la famiglia Nardulli non era da meno. Inoltre il numero dei contadini era spaventosamente sproporzionato rispetto ai professionisti, avvocati e medici, rigorosamente figli della borghesia, che erano riveriti e tenuti in grande considerazione dal popolo poiché assicuravano rispettivamente la difesa giuridica, in un ambiente particolarmente causidico come quello di Gravina, e la protezione dalle malattie. In quell'epoca la giornata lavorativa consentiva appena appena di riempirsi la pancia con pane e pasta, mentre la carne era un bisogno che neanche la domenica la gente comune riusciva sempre a soddisfare. Peppino Urgo non si è mai arreso. Ha colmato il deficit di istruzione scolastica leggendo molto e imparando da autodidatta.
Nonostante fosse ancora un ragazzetto, sono rimasti ben impressi nella sua mente gli episodi violenti avvenuti dopo l'8 settembre del 1943. Gli alleati americani di stanza a Gravina non si comportavano sempre a modo, andavano a caccia di donne e approfittavano del vino buono. Alcuni di loro furono uccisi per strada per punire gli oltraggi, altre cattive condotte o in segno di contrapposizione ideologica. Giuseppe Urgo racconta di essersi imbattuto la mattina presto, come in un inciampo, in un canadese riverso a terra davanti al Comune, scannato come una pecora. Inesperto com'era a quella età, gridò forte dallo spavento, andò a chiamare un amico nelle vicinanze, poi accorsero le guardie municipali e i carabinieri. La gente del posto riferì che il malcapitato se ne andava in giro ubriaco, sfottendo tutti e bussando alla porta delle case in cerca di donne.
Un' altra scena di sangue in quel periodo si verificò in piazza della Repubblica, nel Caffè di Ceci: un paesano rimasto calvo nascondeva la pelata sotto una parrucca che non passava inosservata, un soldato americano gliela scippò dalla testa schernendolo. L'offeso tirò fuori il coltello e lo colpì a morte.
Si usciva allora da un regime politico piuttosto brutale e dalla guerra che per il Sud era appena terminata. Il ricorso ad armi da sparo o da taglio non era cosa rara. Fino ai primi anni del dopoguerra si vedevano in giro uomini che trasportavano la legna dal bosco comunale Difesa Grande al paese caricandosela sulle spalle come bestie da soma. Quando arrivavano trafelati alla periferia di Gravina, sostavano presso il muro del cimitero per asciugare con la coppola il sudore della fronte e con questo lavarsi dalle labbra la bava della fatica. Con vestiti rattoppati camminavano scalzi sulle strade selciate del tempo o, nella migliore delle ipotesi, si fasciavano i piedi di stracci. Quella sorte era toccata anni prima anche a una donna, Filippa, chiamata Lipp, la regina del bosco, una bella donna alta e in forze. Abitava nel rione Piaggio con il marito boscaiolo e due figlie. Non potevano campare e perciò Lipp andò a servizio presso una famiglia ricca. Ma non fu per lei una esperienza felice, era sfruttata dai padroni che la tenevano in casa notte e giorno per tutta la settimana concedendole solo una mezza giornata di riposo alla domenica. Alla prima avance del padrone, Lipp si svincolò mollandogli un sonoro ceffone e corse ad abbracciare suo marito. Da quel momento decise di andare anche lei nel bosco a fare legna insieme al marito con fatica e sudore, ma a testa alta. La incrociavi per strada alle prime luci del mattino e la ritrovavi al ritorno carica di fascine che vendeva ai clienti porta a porta, percorrendo le strade del paese. Visse a fino agli anni sessanta.
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine da sito web senza diritti di copyright.