Mestieri e società
IL SARTO - u cusetöre
Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli
sabato 13 gennaio 2024
13.00
Le vetrine dei sarti non sempre erano contrassegnate dalle insegne, erano prive di addobbi, pulite e luminose. Le sartorie erano dislogate lungo le vie principali del paese. Il Sarto, u cusetöre, è un antico artigiano che svolge un mestiere tra i più affascinanti. Un mestiere di rilevanza sociale, che richiede abilità e competenze per vestire uomini e donne, con eleganza e classe, con creatività e gusto, facendo attenzione a non scadere nel pacchiano o nel volgare. I sarti di un tempo erano dotati di una buona cultura generale, si tenevano informati ed erano felici di fare sfoggio del loro sapere. Nel laboratorio del sarto non mancavano mai i giornali. Era anche un luogo di ritrovo. Un gran numero di ragazze e ragazzi facevano apprendistato nelle sartorie per acquisire la manualità e apprendere i segreti del taglio. Il cliente sceglieva la stoffa e il sarto gli prendeva le misure. Le sartine si riunivano in una grande sala, dove campeggiava un grande tavolo da lavoro, sul quale era agevole stendere la stoffa, segnarla con il gessetto e quindi tagliarla. Si imparava il lavoro guardando, carpendo i segreti e facendo attenzione alle varie fasi del confezionamento. E i giovani apprendisti, solo quando avevano acquisito una certa padronanza dell'arte, passavano al taglio, che rimaneva il culmine dell'apprendimento.
A chi è capitato di andare in un laboratorio di sartoria non sarà sfuggito che il sarto vestiva sempre con camicia e gilet e su questo appuntava gli aghi con il filo. In ogni angolo della stanza c'era un gruppetto di ragazze, sedute sulle sedie o sugli sgabelli, intente al proprio lavoro. Il sarto scrutava attentamente la corporatura del cliente e con una fettuccia metrica misurava la vita, la gamba, il braccio. Il cliente poi ritornava per le varie prove indossando la giacca e i pantaloni, segnati da grandi punti di filo bianco. Quando il vestito era finito, i complimenti si sprecavano. Quel bel vestito era frutto di un lavoro certosino. Secondo il sarto era un'opera d'arte. Oggi non ci sono più ragazzi disposti a frequentare quei pochi laboratori sartoriali rimasti in vita. Quando escono dalle scuole settoriali, che durano diversi anni, gli studenti forse non sanno neanche tenere un ago tra le dita. Un tempo in tre anni di pratica un ragazzo volenteroso era già pronto a fare vestiti con buoni risultati.
Alcuni giovani sarti gravinesi, negli anni della ricostruzione e del boom economico, si trasferirono al nord e, dopo molti sacrifici, fecero fortuna nelle sartorie più prestigiose. L' anziano sarto Fracchiolla, emigrato a Milano negli anni sessanta, era orgoglioso di aver collaborato con le più famose case di moda italiane, che confezionavano abiti esclusivi apprezzati in tutto il mondo. Nei tempi più recenti, la diffusione delle confezioni in serie degli abiti ha inciso su questa professione che è rimasta limitata ai capi più pregiati dell'alta moda femminile e alle sartorie di fascia alta per la clientela maschile. Nei piccoli centri e nelle aree dell'Italia centro-meridionale cerca di resiste la piccola bottega artigiana composta da uno o due titolari ed alcuni aiutanti; l'attività di queste botteghe è rivolta esclusivamente alle riparazioni di capi acquistati. Oggi alcune persone credono di poter nascondere sotto gli abiti la propria rozzezza o la propria mancanza di cultura ma, ovviamente, non ci riescono: l'abito non fa il monaco.
Ha lasciato il vuoto dopo di sé Luigi Bellocchio (1918- 2012) che all'anagrafe era stato registrato con i due nomi di Antonio, Luigi, ma preferiva farsi chiamare Luigi come il suo personale santo protettore È stato, insieme a Giuseppe Mercede, tra i sarti da uomo più bravi, se non il più bravo in assoluto in un periodo in cui le sartorie per gli abiti su misura, sia da uomo che da donna, rappresentavano i luoghi pressoché esclusivi dove bisognava recarsi per poter disporre di abiti nuovi, quando i negozi e le boutique di abbigliamento non erano ancora molto diffusi in paese e per una più ampia scelta occorreva spostarsi a Bari - via Sparano, corso Cavour, via Manzoni - per fare shopping.
Nella sua vita, a cominciare dalla vita lavorativa, Luigi Bellocchio è stato avvantaggiato da due grandi opportunità: suo padre Angelo Raffaele, originario di Matera, era sarto anche lui e l'aveva istruito come si deve all'arte del cucito tenendolo sotto il pacchero anche dopo la parentesi della guerra, fino ai trent'anni. Inoltre, la donna che aveva sposato, Maria Celeste Paternoster, era un'esperta ricamatrice, come solo le monache sapevano formare, e profuse tutta la sua maestria applicandosi alla lavorazione delle asole passando il filo di seta, la "sête de buche", lungo i contorni degli occhielli. Dall'unione nacquero tre figli: Raffaele, Domenico e Rosanna che hanno dato una mano in sartoria da piccoli senza, però, che nessuno di loro decidesse di sposare quel mestiere.
Luigi è stato in attività dagli anni cinquanta fino alla fine del secolo, nel 1998. L'avvio è stato un po' ritardato a causa delle vicissitudini della seconda guerra mondiale. Partecipò infatti alla campagna di Libia e, catturato nel 1942 a Tobruch dagli alleati britannici e australiani, fu spedito proprio in Australia dove già esistevano i campi di lavoro e internamento riservati agli emigrati italiani durante il periodo fascista. Gli fu assegnato il lavoro di cucitura dei teli impermeabili dei sommergibili. Nei nove anni di permanenza in quelle terre così lontane imparò a giocare a tennis, a tennis da tavolo e ad andare a caccia di conigli, che assicuravano qualche guadagno, più se ne prendevano e più si veniva pagati.
La famiglia di Luigi ha abitato inizialmente nella centralissima piazza della Repubblica, nel palazzo che fu sede dell'Albergo Lombardi incendiato dai comunisti in sciopero nel 1947 2 e, dopo, si trasferì in via San Sebastiano dove, al numero civico 58, fu aperta la storica sartoria. Lavoravano in quella sartoria una decina di persone che, d'estate, raddoppiavano a motivo sia della crescita stagionale delle richieste sia perché, nella bella stagione, a scuole chiuse, ragazzi e ragazze trovavano per così dire nell'apprendimento del mestiere un sano riparo dalle tentazioni mondane. Per la precisione si contavano quattro apprendisti giovani e una piccola schiera di sartine che andavano ad imparare l'arte fino alla presa del taglio per mettersi poi in proprio o comunque per fare esperienza in vista di un futuro probabile matrimonio. La presenza in sartoria di numerosi giovani dava slancio e vivacità alla gestione di quella particolare impresa e il maestro, pur sotto attenta costante osservazione da parte degli allievi, doveva fornire loro non unicamente un modus operandi ma soprattutto uno stile comportamentale che fosse apprezzato nel lavoro come nella vita.
In linea con tale obiettivo bisognava, a fine giornata, riconsegnare quei giovani alle famiglie di appartenenza, in primis le giovanissime ragazze che venivano scortate dalla signora Maria Celeste e dai suoi due figli maschi nel percorso di ritorno a casa.
Il locale comprendeva un'anti bottega per ricevere i clienti arredata con un tavolo, due sedie e lo specchio necessario per prendere le misure e per le prove; infine un separé di legno e vetro. All'ingresso era disposta una vetrina che lasciava intravedere quello che succedeva là dentro. Dietro, in fondo al locale, era allestito il laboratorio con due grandi tavoli da lavoro, i ferri da stiro prima a carbone e poi elettrici e tre macchine da cucire Necchi prima ad azionamento manuale poi anch' esse elettriche. Gli strumenti e il materiale di lavoro erano distribuiti in po' dappertutto per essere sempre a portata di mano: la bàrdenelle, ovvero una tela grigia che veniva bagnata per proteggere la stoffa durante lo stiraggio, le forbici di cui alcune di dimensioni extra per tagliare le stoffe più spesse, lo squadro di legno con angolo a 90 gradi, il centimetro per le misure, u ciucciarjiedde con la punta rotonda di tre grandezze diverse per stirare le giacche e i pantaloni, i ditali e i gessetti schiacciati di forma quadrata per segnare il modello sulla stoffa.
I clienti erano piuttosto numerosi, prima di tutti quelli che abitavano in via San Sebastiano, u stratône de Crìste, e dintorni. Appartenevano a tutte le classi sociali, ma tra di essi spiccavano gente benestante e professionisti in grado di pagare il prezzo degli abiti confezionati su misura con le stoffe che essi stessi presentavano al maestro: l' avv. Giancaspro di corso Aldo Moro, l' avv. Ninì Langiulli, i due gemelli Giglio uno medico e l'altro agricoltore resi ancora più somiglianti dal fatto che la mamma li faceva vestire dal sarto con abiti uguali dello stesso colore, il professore don Ciccio Mastrogiacomo, il senatore Giuseppe Giovanniello, il farmacista Mummolo, i costruttori Artal e Gaudino, gli agricoltori Desiante, la famiglia Patimo.
In una settimana il laboratorio confezionava fino a sette, otto abiti che si consegnavano il sabato e la domenica al domicilio dei committenti con l'intervento dei ragazzi di bottega compresi i figli del maestro allettati dalle mance. Luigi serviva anche i preti del paese, come don Giovanni Martinelli che usava portare sotto la tonaca una scamorza da addentare ogni tanto, don Saverio e don Michele Paternoster, don Nicola Nardulli, don Michelino Colangelo. Inoltre, il maestro Bellocchio cuciva i vecchi mantelli con la pelliccia indossati dai più anziani nelle fredde giornate d'inverno.
L'organizzazione del lavoro era compito del maestro, il quale la domenica pomeriggio e il lunedì mattina predisponeva tutto il lavoro della settimana: tagliava tutti i pezzi degli abiti che, all'arrivo degli aiutanti, venivano cuciti con la tecnica du 'nderlànde. Poi si componeva la parte interna della giacca con la tela grezza, che costituiva il supporto interno, imbottendo i lati con il crine per consolidare la struttura della giacca. Quindi si provvedeva ad attaccare il collo dalla parte interna della stoffa e si montavano le due tasche e il taschino, facendo attenzione a nascondere i punti e le cuciture. Infine si attaccavano le maniche con l'intervento del maestro poiché questa fase richiedeva abilità e notevole esperienza.
C'erano alcuni clienti molto esigenti, si trattava di funzionari pubblici e di impiegati di banca che usavano rivolgersi al sarto almeno due volte all'anno. Le prove in questi casi arrivavano fino a quattro, cinque in quanto quei clienti esigevano continue modifiche e adattamenti. Un noto cliente di fede comunista era particolarmente puntiglioso. Un anno, in occasione delle prove di un nuovo abito in corso di lavorazione, chiese più volte a Luigi di accorciare la giacca per renderla più conforme al suo stile e alla moda del momento. All'ultima prova a quel politico sembrò che il capo andasse magnificamente bene, anche se lo scambiò per il gilet. Altri si rivolgevano al sarto per far rivoltare gli abiti logori per l'uso. Alcuni pretendevano che la stessa giacca fosse rivoltata per la terza, la quarta volta. Ma la stoffa risultava talmente rovinata che non ne valeva la pena. In questi casi il maestro - senza colpo ferire - per tenere contento il cliente dava ordine ai garzoni di conservare l'abito nell'armadio, dove restava senza essere più reclamato.
Luigi poteva contare su entrate soddisfacenti che gli permisero anche di far studiare i propri figli. Il sarto doveva essere bravo a modellare l'abito sul corpo delle persone che lo dovevano sfoggiare soprattutto in occasione delle feste patronali (San Michele Arcangelo e la Festa di Cristo) quando il lavoro si triplicava.
Era del tutto delicata la misurazione del cavallo dei pantaloni, ossia la lunghezza che va dalla cintura all'apice dell'arco delle gambe. Il cavallo non doveva essere né troppo basso né troppo alto per evitare dannose aderenze o inestetici penzolamenti della stoffa. Doveva essere giusto, adeguato alla persona, anche se nei tempi odierni tali caratteristiche sono salite alla ribalta dalla moda. Durante la festa di Cristo su via San Sebastiano si svolgeva il passeggio con una larga partecipazione di popolo. Si presentavano tutti con il costume nuovo (giacca e pantaloni, camicia e cravatta) e le donne nei loro tailleur eleganti. Nessuno doveva sfigurare e questa era la scommessa che il sarto doveva vincere
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine da sito web senza diritti di copyright.
A chi è capitato di andare in un laboratorio di sartoria non sarà sfuggito che il sarto vestiva sempre con camicia e gilet e su questo appuntava gli aghi con il filo. In ogni angolo della stanza c'era un gruppetto di ragazze, sedute sulle sedie o sugli sgabelli, intente al proprio lavoro. Il sarto scrutava attentamente la corporatura del cliente e con una fettuccia metrica misurava la vita, la gamba, il braccio. Il cliente poi ritornava per le varie prove indossando la giacca e i pantaloni, segnati da grandi punti di filo bianco. Quando il vestito era finito, i complimenti si sprecavano. Quel bel vestito era frutto di un lavoro certosino. Secondo il sarto era un'opera d'arte. Oggi non ci sono più ragazzi disposti a frequentare quei pochi laboratori sartoriali rimasti in vita. Quando escono dalle scuole settoriali, che durano diversi anni, gli studenti forse non sanno neanche tenere un ago tra le dita. Un tempo in tre anni di pratica un ragazzo volenteroso era già pronto a fare vestiti con buoni risultati.
Alcuni giovani sarti gravinesi, negli anni della ricostruzione e del boom economico, si trasferirono al nord e, dopo molti sacrifici, fecero fortuna nelle sartorie più prestigiose. L' anziano sarto Fracchiolla, emigrato a Milano negli anni sessanta, era orgoglioso di aver collaborato con le più famose case di moda italiane, che confezionavano abiti esclusivi apprezzati in tutto il mondo. Nei tempi più recenti, la diffusione delle confezioni in serie degli abiti ha inciso su questa professione che è rimasta limitata ai capi più pregiati dell'alta moda femminile e alle sartorie di fascia alta per la clientela maschile. Nei piccoli centri e nelle aree dell'Italia centro-meridionale cerca di resiste la piccola bottega artigiana composta da uno o due titolari ed alcuni aiutanti; l'attività di queste botteghe è rivolta esclusivamente alle riparazioni di capi acquistati. Oggi alcune persone credono di poter nascondere sotto gli abiti la propria rozzezza o la propria mancanza di cultura ma, ovviamente, non ci riescono: l'abito non fa il monaco.
Ha lasciato il vuoto dopo di sé Luigi Bellocchio (1918- 2012) che all'anagrafe era stato registrato con i due nomi di Antonio, Luigi, ma preferiva farsi chiamare Luigi come il suo personale santo protettore È stato, insieme a Giuseppe Mercede, tra i sarti da uomo più bravi, se non il più bravo in assoluto in un periodo in cui le sartorie per gli abiti su misura, sia da uomo che da donna, rappresentavano i luoghi pressoché esclusivi dove bisognava recarsi per poter disporre di abiti nuovi, quando i negozi e le boutique di abbigliamento non erano ancora molto diffusi in paese e per una più ampia scelta occorreva spostarsi a Bari - via Sparano, corso Cavour, via Manzoni - per fare shopping.
Nella sua vita, a cominciare dalla vita lavorativa, Luigi Bellocchio è stato avvantaggiato da due grandi opportunità: suo padre Angelo Raffaele, originario di Matera, era sarto anche lui e l'aveva istruito come si deve all'arte del cucito tenendolo sotto il pacchero anche dopo la parentesi della guerra, fino ai trent'anni. Inoltre, la donna che aveva sposato, Maria Celeste Paternoster, era un'esperta ricamatrice, come solo le monache sapevano formare, e profuse tutta la sua maestria applicandosi alla lavorazione delle asole passando il filo di seta, la "sête de buche", lungo i contorni degli occhielli. Dall'unione nacquero tre figli: Raffaele, Domenico e Rosanna che hanno dato una mano in sartoria da piccoli senza, però, che nessuno di loro decidesse di sposare quel mestiere.
Luigi è stato in attività dagli anni cinquanta fino alla fine del secolo, nel 1998. L'avvio è stato un po' ritardato a causa delle vicissitudini della seconda guerra mondiale. Partecipò infatti alla campagna di Libia e, catturato nel 1942 a Tobruch dagli alleati britannici e australiani, fu spedito proprio in Australia dove già esistevano i campi di lavoro e internamento riservati agli emigrati italiani durante il periodo fascista. Gli fu assegnato il lavoro di cucitura dei teli impermeabili dei sommergibili. Nei nove anni di permanenza in quelle terre così lontane imparò a giocare a tennis, a tennis da tavolo e ad andare a caccia di conigli, che assicuravano qualche guadagno, più se ne prendevano e più si veniva pagati.
La famiglia di Luigi ha abitato inizialmente nella centralissima piazza della Repubblica, nel palazzo che fu sede dell'Albergo Lombardi incendiato dai comunisti in sciopero nel 1947 2 e, dopo, si trasferì in via San Sebastiano dove, al numero civico 58, fu aperta la storica sartoria. Lavoravano in quella sartoria una decina di persone che, d'estate, raddoppiavano a motivo sia della crescita stagionale delle richieste sia perché, nella bella stagione, a scuole chiuse, ragazzi e ragazze trovavano per così dire nell'apprendimento del mestiere un sano riparo dalle tentazioni mondane. Per la precisione si contavano quattro apprendisti giovani e una piccola schiera di sartine che andavano ad imparare l'arte fino alla presa del taglio per mettersi poi in proprio o comunque per fare esperienza in vista di un futuro probabile matrimonio. La presenza in sartoria di numerosi giovani dava slancio e vivacità alla gestione di quella particolare impresa e il maestro, pur sotto attenta costante osservazione da parte degli allievi, doveva fornire loro non unicamente un modus operandi ma soprattutto uno stile comportamentale che fosse apprezzato nel lavoro come nella vita.
In linea con tale obiettivo bisognava, a fine giornata, riconsegnare quei giovani alle famiglie di appartenenza, in primis le giovanissime ragazze che venivano scortate dalla signora Maria Celeste e dai suoi due figli maschi nel percorso di ritorno a casa.
Il locale comprendeva un'anti bottega per ricevere i clienti arredata con un tavolo, due sedie e lo specchio necessario per prendere le misure e per le prove; infine un separé di legno e vetro. All'ingresso era disposta una vetrina che lasciava intravedere quello che succedeva là dentro. Dietro, in fondo al locale, era allestito il laboratorio con due grandi tavoli da lavoro, i ferri da stiro prima a carbone e poi elettrici e tre macchine da cucire Necchi prima ad azionamento manuale poi anch' esse elettriche. Gli strumenti e il materiale di lavoro erano distribuiti in po' dappertutto per essere sempre a portata di mano: la bàrdenelle, ovvero una tela grigia che veniva bagnata per proteggere la stoffa durante lo stiraggio, le forbici di cui alcune di dimensioni extra per tagliare le stoffe più spesse, lo squadro di legno con angolo a 90 gradi, il centimetro per le misure, u ciucciarjiedde con la punta rotonda di tre grandezze diverse per stirare le giacche e i pantaloni, i ditali e i gessetti schiacciati di forma quadrata per segnare il modello sulla stoffa.
I clienti erano piuttosto numerosi, prima di tutti quelli che abitavano in via San Sebastiano, u stratône de Crìste, e dintorni. Appartenevano a tutte le classi sociali, ma tra di essi spiccavano gente benestante e professionisti in grado di pagare il prezzo degli abiti confezionati su misura con le stoffe che essi stessi presentavano al maestro: l' avv. Giancaspro di corso Aldo Moro, l' avv. Ninì Langiulli, i due gemelli Giglio uno medico e l'altro agricoltore resi ancora più somiglianti dal fatto che la mamma li faceva vestire dal sarto con abiti uguali dello stesso colore, il professore don Ciccio Mastrogiacomo, il senatore Giuseppe Giovanniello, il farmacista Mummolo, i costruttori Artal e Gaudino, gli agricoltori Desiante, la famiglia Patimo.
In una settimana il laboratorio confezionava fino a sette, otto abiti che si consegnavano il sabato e la domenica al domicilio dei committenti con l'intervento dei ragazzi di bottega compresi i figli del maestro allettati dalle mance. Luigi serviva anche i preti del paese, come don Giovanni Martinelli che usava portare sotto la tonaca una scamorza da addentare ogni tanto, don Saverio e don Michele Paternoster, don Nicola Nardulli, don Michelino Colangelo. Inoltre, il maestro Bellocchio cuciva i vecchi mantelli con la pelliccia indossati dai più anziani nelle fredde giornate d'inverno.
L'organizzazione del lavoro era compito del maestro, il quale la domenica pomeriggio e il lunedì mattina predisponeva tutto il lavoro della settimana: tagliava tutti i pezzi degli abiti che, all'arrivo degli aiutanti, venivano cuciti con la tecnica du 'nderlànde. Poi si componeva la parte interna della giacca con la tela grezza, che costituiva il supporto interno, imbottendo i lati con il crine per consolidare la struttura della giacca. Quindi si provvedeva ad attaccare il collo dalla parte interna della stoffa e si montavano le due tasche e il taschino, facendo attenzione a nascondere i punti e le cuciture. Infine si attaccavano le maniche con l'intervento del maestro poiché questa fase richiedeva abilità e notevole esperienza.
C'erano alcuni clienti molto esigenti, si trattava di funzionari pubblici e di impiegati di banca che usavano rivolgersi al sarto almeno due volte all'anno. Le prove in questi casi arrivavano fino a quattro, cinque in quanto quei clienti esigevano continue modifiche e adattamenti. Un noto cliente di fede comunista era particolarmente puntiglioso. Un anno, in occasione delle prove di un nuovo abito in corso di lavorazione, chiese più volte a Luigi di accorciare la giacca per renderla più conforme al suo stile e alla moda del momento. All'ultima prova a quel politico sembrò che il capo andasse magnificamente bene, anche se lo scambiò per il gilet. Altri si rivolgevano al sarto per far rivoltare gli abiti logori per l'uso. Alcuni pretendevano che la stessa giacca fosse rivoltata per la terza, la quarta volta. Ma la stoffa risultava talmente rovinata che non ne valeva la pena. In questi casi il maestro - senza colpo ferire - per tenere contento il cliente dava ordine ai garzoni di conservare l'abito nell'armadio, dove restava senza essere più reclamato.
Luigi poteva contare su entrate soddisfacenti che gli permisero anche di far studiare i propri figli. Il sarto doveva essere bravo a modellare l'abito sul corpo delle persone che lo dovevano sfoggiare soprattutto in occasione delle feste patronali (San Michele Arcangelo e la Festa di Cristo) quando il lavoro si triplicava.
Era del tutto delicata la misurazione del cavallo dei pantaloni, ossia la lunghezza che va dalla cintura all'apice dell'arco delle gambe. Il cavallo non doveva essere né troppo basso né troppo alto per evitare dannose aderenze o inestetici penzolamenti della stoffa. Doveva essere giusto, adeguato alla persona, anche se nei tempi odierni tali caratteristiche sono salite alla ribalta dalla moda. Durante la festa di Cristo su via San Sebastiano si svolgeva il passeggio con una larga partecipazione di popolo. Si presentavano tutti con il costume nuovo (giacca e pantaloni, camicia e cravatta) e le donne nei loro tailleur eleganti. Nessuno doveva sfigurare e questa era la scommessa che il sarto doveva vincere
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine da sito web senza diritti di copyright.