
Mestieri e società
L’ARROTINO - u mulafûrce
Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli
sabato 22 marzo 2025
È arrivato l'arrotino. Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto! Donne, è arrivato l'arrotino, u mulafûrce, u mulafûrce. Molti ricordano quest'antico mestiere. L'arrotino, detto anche mola forbici, u mulafûrce, affilava le lame non più taglienti degli arnesi da lavoro perché in passato gli attrezzi malfunzionanti venivano aggiustati, riparati, rimodellati ripristinati e infine riusati. Oggi la nuova generazione usa e getta abbandona nei rifiuti qualsiasi oggetto passato di moda, caduto in disuso, non più funzionante.
In genere l'arrotino del paese possedeva una bicicletta sormontata da una mola di pietra, che, per girare, era collegata ai pedali a mezzo di cinghie. L'arrotino portava sempre con sé una borraccia d'acqua che serviva per raffreddare i metalli. Girava per le strade, gridando con voce forte e chiara: u mulafûrce, u mulafûrce.
Al richiamo squillante dell'arrotino, le donne del paese accorrevano per le strade, per far affilare le lame degli utensili domestici o degli attrezzi di lavoro dei mariti. Accorrevano anche sarti e macellai. E l'arrotino, abile anche a corteggiare le donne, sapeva dare le giuste risposte ad ogni esigenza: insomma ci sapeva fare. Spinto dal bisogno, conquistava nuovi mercati fuori dalla propria città, ampliava il territorio di competenza, chiedeva lavoro anche nei paesi limitrofi. Dal momento che era faticoso farsi una clientela, occorreva affinare il proprio mestiere e mantenere prezzi competitivi. E quando si trovava a lavorare fuori dal proprio paese, si accontentava di una fetta di pane con il pomodoro e a volte di un piatto caldo che gli veniva offerto da qualche brava cliente.
Negli anni settanta l'arrotino apriva la sua bottega, cessava quasi completamente di fare l'ambulante, diventava un vero commerciante.
Il mestiere dell'arrotino veniva tramandato di padre in figlio, un piccolo mestiere errante ma gelosamente custodito.
L'arrotino affilava anche arnesi usati nei campi agricoli o nelle aziende armentizie locali. Usava chiodi, pezzi di rame e di latta, martellini di stagno per il restauro o per il rivestimento interno dei recipienti di rame. I padri dei nostri padri lo ricordano bene: avevano la memoria diretta di cui oggi si è persa traccia. Un tempo gli arrotini svolgevano anche altre attività: riparavano ombrelli, cucine a gas, fornelli. Tutte competenze acquisite in stile fai-da-te, per arrotondare i guadagni.
La figura dell'arrotino non è tuttavia completamente scomparsa. Oggi le competenze sono maggiori e gli artigiani si sono specializzati nell'eseguire un lavoro a regola d'arte; infatti, chi svolge questo particolare lavoro di molatura possiede conoscenze e tecnologia dei materiali, degli acciai dei trattamenti termici, nonché nozioni sui materiali abrasivi e sulle norme di sicurezza.
Nella società e nel mondo produttivo tutto si aggiorna e oggi esiste anche l'Associazione degli Arrotini e delle Coltellerie (AAeC); in Puglia risultano iscritte solo tre coltellerie/arrotinerie di Ostuni, Barletta e Santeramo. Nell'arte non sono mancate espressioni riferite all'antico mestiere, come, ad esempio, la statua in marmo del primo secolo a.C. esposta agli Uffizi di Firenze o la scultura di Giovan Battista Piamontini risalente al 1754 nella Galleria nazionale irlandese di Dublino.
Nella famiglia Schinco gli arrotini furono Salvatore e i suoi due figli Giacomo e Francesco nella casa di Via Michelangelo Calderoni, sàupe a Calaraune. Francesco aveva optato per il mestiere ambulante e percorreva le strade del paese al grido di u mulafûrce, u mulafûrce. Faceva l'arrotino e tosava anche i cavalli e le pecore nelle masserie quando arrivava il tempo di alleggerire il pelo e, siccome all'epoca i cavalli e di gran lunga le pecore erano tante, si faceva aiutare dall'altro fratello Giacomo il quale, a sua volta, costringeva ad accompagnarlo suo figlio Peppino perché apprendesse l'arte e una lezione di vita.
Sicchè Giacomo Schinco (1908 – 1976), protagonista del nostro racconto, aveva ereditato dal padre l'arte di arrotino e aveva scelto di praticarla in casa, dapprima in Larghetto San Francesco e poi all'imbocco di via Maurizio Lettieri, sàupe o pónte. Tale scelta era probabilmente da collegare all'attività della moglie Maria Cicala che cuciva, cioè faceva la sarta com' era consuetudine per le donne che volevano dare sfogo al proprio istinto creativo e sostegno economico alla famiglia.
Fu questo connubio così stretto e quotidiano a favorire l'inclinazione a mettere su una famiglia numerosa di ben otto rampolli: Grazia, Lucia, Arcangela, Salvatore, Giuseppe, Anna, Michele e Filippo. Le bocche da sfamare erano tante e bisognava organizzarsi, darsi delle regole.
Giacomo cominciò a fare anche il calzolaio. Tuttavia non tralasciò di considerare che forse valeva la pena di mettere in campo l'arte paterna che aveva imparato da piccolo. Il mestiere di arrotino faceva accorrere a casa clienti di ogni tipo, di varie esigenze, soprattutto macellai e sarti, e le donne del quartiere, alle prese con gli attrezzi della cucina.
Il mestiere poteva essere sostenuto anche dal contributo dei ragazzi della famiglia; tuttavia nessuno di loro, a causa delle nuove possibilità offerte dal progresso, volle esercitare quell' attività. I maschi, si sa, non riconoscono di buon grado l'autorevolezza paterna e propendono piuttosto, forse inconsapevolmente, per un lavoro e una posizione sociale diversa, anche spinti dal desiderio del capostipite di un avvenire più radioso per i propri figli.
Nella famiglia numerosa di Giacomo anche le donne fornivano il loro aiuto e, secondo i costumi dell'epoca, le figlie femmine, almeno le maggiori, furono mandate dalle suore del Sacro Costato ad imparare l'arte del cucito e del ricamo. Le consacrate erano maestre nell'arte di trarre guadagno dal lavoro che svolgevano su ordinazione.
Le loro tovaglie e le loro lenzuola ricamate per i corredi delle giovani spose erano molto ricercate e venivano ricompensate profumatamente. Inoltre, le entrate del convento venivano rimpinguate in gran misura dalle rette dell'asilo. Così le sorelle Schinco, prendendone spunto, suggerivano al papà di aumentare anche le tariffe della molatura alla quale ricorrevano persino le suore. È la regola per chi svolge un'attività d'impresa, sia pure minuscola e familiare come quella degli Schinco. Con ciò non vogliamo dire che la situazione fosse agevole e sempre redditizia. I problemi non mancavano, anche perché non tutti i clienti erano puntuali a pagare il servizio ricevuto. Del resto questa mancanza di puntualità non desta meraviglia se si pensa che la famiglia Schinco ha attraversato il periodo della guerra e quella forse ancor più difficile del dopoguerra.
Nell'estate del 1943 Grazia e Lucia, le figlie di sei e un anno, furono portate via di casa dalla mamma, per andare a trovare riparo nelle grotte della gravina a causa dei bombardamenti. Bastava scendere i gradoni che portano ai piloni della Madonna della Stella e attraversare a piedi il ponte sulla gravina. La strada era piena di gente che scappava, le fuscètizze. Incrociarono un traino, u trainjiere, commosso dall'aria spaurita di quelle donnine, si offrì di accompagnarle: – Dove andate tanto di corsa? – Cerchiamo mio cognato Francesco. Doveva passare a prenderci per portarci alla masseria – rispose Mariuccia – Vi accompagno io se volete! – No, no! Aspettiamo Ciccillo. Allora quel brav'uomo corse alla masseria Stimolo per avvisare Francesco, che si precipitò a portare in salvo le donnine.
Negli anni bui della ricostruzione le donne di casa Schinco andavano persino a spigolare nei campi di grano, dopo la mietitura, per assicurarsi un po' di farina per le proprie esigenze alimentari. L'educazione fornita dal padre Giacomo era di tipo tradizionale e molto rigorosa. Le ragazze di casa andavano a messa tutte le domeniche e al ritorno dovevano spiegargli il Vangelo letto e commentato in chiesa dal sacerdote. Giacomo non andava in chiesa e, pur non essendo un comunista, non si faceva scrupolo - in ossequio al prevalente spirito anticlericale diffuso nell'ambiente di paese - di ironizzare sui preti: "Abito nero e panza triste, fregano il prossimo pe l'amore de Criste".
II nostro arrotino ha svolto infine anche il lavoro di guardia campestre. Ha lavorato anche ad Altamura e alla masseria di Stimolo. Come avveniva di frequente in quei tempi, lavorava senza tutele e contributi previdenziali.
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Illustrazione di Marilena Paternoster.
In genere l'arrotino del paese possedeva una bicicletta sormontata da una mola di pietra, che, per girare, era collegata ai pedali a mezzo di cinghie. L'arrotino portava sempre con sé una borraccia d'acqua che serviva per raffreddare i metalli. Girava per le strade, gridando con voce forte e chiara: u mulafûrce, u mulafûrce.
Al richiamo squillante dell'arrotino, le donne del paese accorrevano per le strade, per far affilare le lame degli utensili domestici o degli attrezzi di lavoro dei mariti. Accorrevano anche sarti e macellai. E l'arrotino, abile anche a corteggiare le donne, sapeva dare le giuste risposte ad ogni esigenza: insomma ci sapeva fare. Spinto dal bisogno, conquistava nuovi mercati fuori dalla propria città, ampliava il territorio di competenza, chiedeva lavoro anche nei paesi limitrofi. Dal momento che era faticoso farsi una clientela, occorreva affinare il proprio mestiere e mantenere prezzi competitivi. E quando si trovava a lavorare fuori dal proprio paese, si accontentava di una fetta di pane con il pomodoro e a volte di un piatto caldo che gli veniva offerto da qualche brava cliente.
Negli anni settanta l'arrotino apriva la sua bottega, cessava quasi completamente di fare l'ambulante, diventava un vero commerciante.
Il mestiere dell'arrotino veniva tramandato di padre in figlio, un piccolo mestiere errante ma gelosamente custodito.
L'arrotino affilava anche arnesi usati nei campi agricoli o nelle aziende armentizie locali. Usava chiodi, pezzi di rame e di latta, martellini di stagno per il restauro o per il rivestimento interno dei recipienti di rame. I padri dei nostri padri lo ricordano bene: avevano la memoria diretta di cui oggi si è persa traccia. Un tempo gli arrotini svolgevano anche altre attività: riparavano ombrelli, cucine a gas, fornelli. Tutte competenze acquisite in stile fai-da-te, per arrotondare i guadagni.
La figura dell'arrotino non è tuttavia completamente scomparsa. Oggi le competenze sono maggiori e gli artigiani si sono specializzati nell'eseguire un lavoro a regola d'arte; infatti, chi svolge questo particolare lavoro di molatura possiede conoscenze e tecnologia dei materiali, degli acciai dei trattamenti termici, nonché nozioni sui materiali abrasivi e sulle norme di sicurezza.
Nella società e nel mondo produttivo tutto si aggiorna e oggi esiste anche l'Associazione degli Arrotini e delle Coltellerie (AAeC); in Puglia risultano iscritte solo tre coltellerie/arrotinerie di Ostuni, Barletta e Santeramo. Nell'arte non sono mancate espressioni riferite all'antico mestiere, come, ad esempio, la statua in marmo del primo secolo a.C. esposta agli Uffizi di Firenze o la scultura di Giovan Battista Piamontini risalente al 1754 nella Galleria nazionale irlandese di Dublino.
Nella famiglia Schinco gli arrotini furono Salvatore e i suoi due figli Giacomo e Francesco nella casa di Via Michelangelo Calderoni, sàupe a Calaraune. Francesco aveva optato per il mestiere ambulante e percorreva le strade del paese al grido di u mulafûrce, u mulafûrce. Faceva l'arrotino e tosava anche i cavalli e le pecore nelle masserie quando arrivava il tempo di alleggerire il pelo e, siccome all'epoca i cavalli e di gran lunga le pecore erano tante, si faceva aiutare dall'altro fratello Giacomo il quale, a sua volta, costringeva ad accompagnarlo suo figlio Peppino perché apprendesse l'arte e una lezione di vita.
Sicchè Giacomo Schinco (1908 – 1976), protagonista del nostro racconto, aveva ereditato dal padre l'arte di arrotino e aveva scelto di praticarla in casa, dapprima in Larghetto San Francesco e poi all'imbocco di via Maurizio Lettieri, sàupe o pónte. Tale scelta era probabilmente da collegare all'attività della moglie Maria Cicala che cuciva, cioè faceva la sarta com' era consuetudine per le donne che volevano dare sfogo al proprio istinto creativo e sostegno economico alla famiglia.
Fu questo connubio così stretto e quotidiano a favorire l'inclinazione a mettere su una famiglia numerosa di ben otto rampolli: Grazia, Lucia, Arcangela, Salvatore, Giuseppe, Anna, Michele e Filippo. Le bocche da sfamare erano tante e bisognava organizzarsi, darsi delle regole.
Giacomo cominciò a fare anche il calzolaio. Tuttavia non tralasciò di considerare che forse valeva la pena di mettere in campo l'arte paterna che aveva imparato da piccolo. Il mestiere di arrotino faceva accorrere a casa clienti di ogni tipo, di varie esigenze, soprattutto macellai e sarti, e le donne del quartiere, alle prese con gli attrezzi della cucina.
Il mestiere poteva essere sostenuto anche dal contributo dei ragazzi della famiglia; tuttavia nessuno di loro, a causa delle nuove possibilità offerte dal progresso, volle esercitare quell' attività. I maschi, si sa, non riconoscono di buon grado l'autorevolezza paterna e propendono piuttosto, forse inconsapevolmente, per un lavoro e una posizione sociale diversa, anche spinti dal desiderio del capostipite di un avvenire più radioso per i propri figli.
Nella famiglia numerosa di Giacomo anche le donne fornivano il loro aiuto e, secondo i costumi dell'epoca, le figlie femmine, almeno le maggiori, furono mandate dalle suore del Sacro Costato ad imparare l'arte del cucito e del ricamo. Le consacrate erano maestre nell'arte di trarre guadagno dal lavoro che svolgevano su ordinazione.
Le loro tovaglie e le loro lenzuola ricamate per i corredi delle giovani spose erano molto ricercate e venivano ricompensate profumatamente. Inoltre, le entrate del convento venivano rimpinguate in gran misura dalle rette dell'asilo. Così le sorelle Schinco, prendendone spunto, suggerivano al papà di aumentare anche le tariffe della molatura alla quale ricorrevano persino le suore. È la regola per chi svolge un'attività d'impresa, sia pure minuscola e familiare come quella degli Schinco. Con ciò non vogliamo dire che la situazione fosse agevole e sempre redditizia. I problemi non mancavano, anche perché non tutti i clienti erano puntuali a pagare il servizio ricevuto. Del resto questa mancanza di puntualità non desta meraviglia se si pensa che la famiglia Schinco ha attraversato il periodo della guerra e quella forse ancor più difficile del dopoguerra.
Nell'estate del 1943 Grazia e Lucia, le figlie di sei e un anno, furono portate via di casa dalla mamma, per andare a trovare riparo nelle grotte della gravina a causa dei bombardamenti. Bastava scendere i gradoni che portano ai piloni della Madonna della Stella e attraversare a piedi il ponte sulla gravina. La strada era piena di gente che scappava, le fuscètizze. Incrociarono un traino, u trainjiere, commosso dall'aria spaurita di quelle donnine, si offrì di accompagnarle: – Dove andate tanto di corsa? – Cerchiamo mio cognato Francesco. Doveva passare a prenderci per portarci alla masseria – rispose Mariuccia – Vi accompagno io se volete! – No, no! Aspettiamo Ciccillo. Allora quel brav'uomo corse alla masseria Stimolo per avvisare Francesco, che si precipitò a portare in salvo le donnine.
Negli anni bui della ricostruzione le donne di casa Schinco andavano persino a spigolare nei campi di grano, dopo la mietitura, per assicurarsi un po' di farina per le proprie esigenze alimentari. L'educazione fornita dal padre Giacomo era di tipo tradizionale e molto rigorosa. Le ragazze di casa andavano a messa tutte le domeniche e al ritorno dovevano spiegargli il Vangelo letto e commentato in chiesa dal sacerdote. Giacomo non andava in chiesa e, pur non essendo un comunista, non si faceva scrupolo - in ossequio al prevalente spirito anticlericale diffuso nell'ambiente di paese - di ironizzare sui preti: "Abito nero e panza triste, fregano il prossimo pe l'amore de Criste".
II nostro arrotino ha svolto infine anche il lavoro di guardia campestre. Ha lavorato anche ad Altamura e alla masseria di Stimolo. Come avveniva di frequente in quei tempi, lavorava senza tutele e contributi previdenziali.
Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Illustrazione di Marilena Paternoster.