LA CAPÈRA - la capellêre
LA CAPÈRA - la capellêre
Mestieri e società

LA CAPÈRA - la capellêre

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

A Napoli la chiamavano la capèra, a Gravina la capellêre, la pettinatrice in casa dei capelli delle donne. Insomma una parrucchiera a domicilio, che si esponeva alle critiche di una clientela esigente. Mentre pettinava, ascoltava racconti e raccoglieva sfoghi, indiscrezioni, notizie appena sussurrate; prometteva di non riferire ad anima viva ciò che aveva saputo in via confidenziale, ma quasi mai manteneva il segreto. La capellêre era orgogliosa di come apparecchiava le capigliature delle sue clienti. Un tempo le pettinatrici sistemavano i capelli intrecciandoli e avvolgendoli dietro la nuca, formavano cioè u tuppe e i capelli erano contornati con un lungo nastrino multicolore, tenuti ben fermi con una spaducce o spatine di oro e argento bulinato, come nel '700. Questa pettinatura era richiesta anche dalle mogli dei padroni delle terre e dei benestanti. Un' acconciatura femminile molto diffusa che metteva in risalto il viso, rendendo la bellezza della donna ancora più accattivante. La pettinata, che di solito si faceva a cadenza mensile, era anche l'occasione per un intervento a fini igienici per controllare se si fossero casomai insediati i pidocchi, cosa abbastanza ricorrente allora.

Così la parrucchiera domestica, la capellêre, con un pettine a denti molto larghi e uno a denti sottili, provvedeva a snidarli disinfettando il cuoio capelluto. Durante questa operazione si restava sorpresi nel vedere le massaie con lunghissimi capelli sciolti, na muntagne de capídde, ciò che rendeva il loro aspetto inconsueto, strano, sicuramente diverso da quello abituale, quasi irriconoscibile. Quanto guadagnava la capellêre? Poco. Con poche lire si impegnava a pettinare una signora ogni giorno per una settimana. Con quello che guadagnava in un mese comprava qualcosa per sé e per la famiglia. In un giorno riusciva a servire duo o tre donne al massimo. 78 I tipi di acconciatura più in voga erano: u tuppe a fascette, u tuppe a zampa di cavallo, le trecce alla romana chiuse e incrociate sulla testa. Pettinare a domicilio le signore richiedeva tempo e pazienza, tenendo conto dell'abbondanza delle capigliature femminili che raramente si sottoponevano al taglio.

La pettinatrice girava casa per casa, in quelle dei signori e del ceto medio in particolare, tra i vicoli e le viuzze della città. E non si limitava a pettinare, ma amava riportare alle orecchie tutti i fatti accaduti, specie quelli più scabrosi e piccanti. La capellêre aveva l'obiettivo di creare un bellissimo tuppe di capelli. E ci riusciva sempre. Un tempo dei lunghi capelli delle donne si faceva persino commercio, o meglio si barattavano i capelli in cambio di qualche utile oggetto per la casa. L'abitudine a fare raccolta dei capelli tagliati o residuati dalla pettinatura è al centro del bel racconto del prof. Pietro Elia, un racconto di vita vissuta che vi proponiamo di seguito.

RICCIOLI D'ORO La mia nonna materna Teresa Lagreca (1903 -1970) mise al mondo undici figli, sette dei quali morirono in tenera età. I miei nonni materni si erano sposati quando il Duce inaugurava il suo ventennio in Italia e in quegli anni era molto alta la mortalità infantile soprattutto nel Sud Italia dove imperversava la malaria oltre al tifo e le malattie esantematiche avevano il loro sfogo tra le mura domestiche. Per nonna Teresa oltre a questi mali si aggiunsero le disgrazie. Così una bambina molto vivace un lunedì di bucato, mentre la mamma era affaccendata in un'altra stanzetta, volle specchiarsi come Narciso nell'acqua limpida di una bagnarola predisposta per il risciacquo. Bastarono pochi attimi. Quando la mamma uscì dall'altra stanzetta era già troppo tardi: era riversa col capo in giù nell'acqua e non c'era più nulla da fare tranne che afferrarla, costatarne la morte e disperarsi. Donna di gran fede, nonna Teresa si raccomandava alla Vergine Maria recitando ogni giorno il Santo Rosario. Gli ultimi due figli si chiamavano Anna (nata il 1936) e Salvatore Mercadante (nato il 1938); stavano sempre insieme come se fossero gemelli, ma gli occhi di tutti si fissavano su Salvatore. Ricordo come ne parlava la nonna Teresa: Salvatore (Racconto di un fatto realmente accaduto scritto dal prof. Pietro Elia (1948) docente emerito di Italiano e Storia) era un angelo con gli occhi azzurri e i riccioli d'oro. Molto giudizioso, ci incantava con le sue risposte e la sua bella voce quando cantava. Accanto all'abitazione dei miei nonni abitava un anziano signore di nome Peppino Conca, figlio della maestra Sansone, rinomata per aver vissuto 106 anni. Peppino Conca era già ultra ottantenne quando chi scrive questo racconto aveva all'incirca 10 anni, e mi parlava di questo enfant prodige protagonista del racconto. Peppino Conca spesso lo chiamava vicino a sé e lo invitava a cantare una canzoncina arcinota negli anni della seconda Guerra mondiale. Salvatore prontamente si esibiva cantando Mamma non piangere se mi vedrai partir… .

Nell' estate del 1942 i miei nonni erano alla masseria Schinco sotto Irsina come mezzadri, davanti alla masseria c'era l'aia predisposta per la p'satur' dell'orzo, dell'avena, delle favine e di altre leguminose. Circa un mese dopo iniziavano la mietitura e la trebbiatura del grano. I genitori di Salvatore erano entrambi sull'aia quel giorno di maggio e Salvatore ed Anna eludendo l'attenzione dei loro genitori approfittarono per entrare nella casa colonica, andare a rovistare nei tiretti d' la cul'nett' (comodino) accanto al letto matrimoniale. Tra le altre cianfrusaglie misero le mani su una scatoletta di latta contenente compresse di chinino, medicinale largamente impiegato per combattere la Terzana (febbre malarica). È risaputo che le industrie farmaceutiche confezionavano le compresse con un involucro edulcorato per renderle più gradite al palato di chi le introduceva nella bocca. Quelle pillole dovevano essere molto appetibili al palato dei piccini e, una dopo l'altra, in men che si dica, la scorta fu esaurita. Ai primi sintomi di intossicazione, Anna intuì il pericolo che stava correndo e insieme al fratellino si recò sull' aia foriera della tragedia in atto. Rivelò la causa del suo malore e le somministrarono albume d'uovo per aiutarla a rimettere ciò che aveva trangugiato. Era quanto di più immediato sapeva espedire la saggezza popolare. Con tale rimedio la salvarono perché Anna riuscì a rigettare le compresse ingerite. Non accadde la stessa sorte per Salvatore: non intuiva ciò che gli adulti gli dicevano, non riusciva a rimettere ciò che aveva ingerito. A nulla valse la corsa del calesse verso Irsina, il piccolo arrivò freddo al pronto soccorso dove il medico di turno ne constatò il decesso.

Trascorsero alcuni anni. Una mattina di sole a Gravina nonna Teresa era seduta ad una sedia all'ingresso del portone di casa con i lunghi capelli sciolti mentre una capellêre glieli pettinava, li discriminava in due trecce e avvolgeva queste ultime nella zona occipitale per formare un tuppo. Erano tempi di grande povertà per la gente del popolo, si viveva di stenti e non si buttava niente, persino i capelli che si erano staccati dal cuoio capelluto non venivano buttati, ma raccolti in ciocche, legati a mazzetto e riposti nella fessura tra lo stipite del portone di ingresso e il muro accanto, là dove la caduta di calcinaccio aveva lasciato spazio (la scaranz') sufficiente a riporre i capelli annodati in attesa di barattarli con lo strillone (uascezz') che di tanto in tanto passava per quella via, con una carretta piena di utensili domestici che dava in cambio all'acquisto dei capelli che venivano rivenduti per farne parrucche. Le donne uscivano dalle loro abitazioni sulla strada al grido di richiamo: Ci ton' l' robb' vicch' uagnedd'! Infatti, più che acquistare con i soldi, si barattavano i capelli, vecchie mazze di scopa ed altri oggetti fuori uso in cambio di utensili da cucina secondo la stima che ne faceva lo strillone.

La nonna Teresa aveva appena terminato la sua toeletta e anche questa volta raccolse i capelli superflui, li annodò con una ciocca più lunga e volle sistemarli lei stessa nella fessura sempre utilizzata per la riposizione. Questa volta i suoi occhi furono attratti da un riverbero di luce nella zona inferiore della fessura ad un metro circa di altezza dal pavimento dell'androne. Fu tale l'emozione che la colse in quell'istante che sbiancò emettendo un gemito d'angoscia quando s'avvide che nella fessura c'era una bella ciocca di riccioli biondi: inconfondibili, erano i capelli del suo piccolo Salvatore che ora… non c'era più! Lui pure aveva imitato il gesto della sua mamma l'ultima volta che gli avevano tagliato i capelli. La povera nonna mia a quella visione sprofondò nel dolore e pianse amare lacrime ripensando al suo bambino che non c'era più! Tutti i presenti nel condominio accorsero e si prodigarono nel consolarla. Quel giorno non si parlò d'altro…che di quel bambino giudizioso, dalla voce angelica, dagli occhi azzurri e dai riccioli d'oro.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Illustrazione di Marilena Paternoster.
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