LA CESTAIA - la spórtarôre
LA CESTAIA - la spórtarôre
Mestieri e società

LA CESTAIA - la spórtarôre

Rubrica "Mestieri e società" a cura di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli

Panêre e panarjidde / spòrte e spòrtaredde / canistre e canistrjiedde: sono i prodotti che nei tempi passati alcuni anziani contadini presentavano la domenica mattina nella piazza del paese per venderli, improvvisando piccoli mercati. Erano i cosiddetti cestai, le spòrtarôre. Come accade per quasi tutti i mestieri legati alla vita contadina, è spesso il contadino stesso a dedicarsi a queste attività artigianali, nei momenti di riposo dalla campagna.
Il cestaio non disponeva di una vera e propria bottega, ma era un ambulante che decideva di fermarsi negli angoli più in vista del paese per la vendita di alcuni esemplari dei suoi manufatti, oppure passava nelle masserie a prestare la propria opera. Nei mesi invernali, nelle lamie in campagna oppure nelle case in paese o addirittura nelle stalle era facile trovare i contadini, coadiuvati dalle mogli, intenti a costruire alcuni contenitori per i prodotti della terra. I vecchi contadini avevano l'abitudine di portarsi appresso un coltello, piccolo o grande. Un utilissimo attrezzo per il lavoro del cestaio; lo adoperava per raccogliere nei boschi e lungo i canali le fibre adatte per l'intreccio, come il giunco, la canna e il vimine; si inoltrava nei campi di grano per raccogliere lo stelo delle spighe, u restucce; raccattava inoltre foglie, rami e cortecce di alberi.

Col coltello eliminava la scorza a questi prodotti per metterli a bagno: impregnati d'acqua, umidi e flessibili erano così pronti per la costruzione dei manufatti. Si costruiva prima il fondo, la base del cesto, posizionando otto legni con disposizione a raggiera intorno ai quali si intrecciavano le fibre, tutte ben pressate per un aspetto regolare e compatto. Raggiunta la desiderata dimensione della base, il cestaio fissava l'estremità della tessitura e, dopo aver piegato i listelli dell'ordito verso l'alto, tesseva i fianchi del cesto. Terminati i fianchi bisognava rifinire il manufatto mediante una bordatura che poteva essere eseguita in diversi modi. Si passava quindi alla piegatura delle stecche dell'ordito ad arco per farle passare una ad una negli occhielli. Mancava quindi solamente l'inserimento di un robusto manico. In questo modo si costruivano anche le protezioni per le bottiglie di vetro e per le damigiane. I cesti venivano utilizzati dalle donne per mettere la biancheria da stendere e quella asciutta, e più in generale per il trasporto al forno dei biscotti appena impastati; i contadini invece usavano tali contenitori per il trasporto della frutta dalla campagna alla propria abitazione.

Costruire cesti era davvero un'arte, un'abilità straordinaria acquisita dai contadini e giovani pastori. Questi apprendevano l'arte nella durezza degli addiacci o nelle masserie dei padroni delle imprese armentizie e nelle ore serali dopo una giornata passata a pascolare. Rimane oggi qualche anziano contadino che si cimenta a produrre cesti: manufatti bellissimi per adornare - magari riempiti di fiori freschi - gli androni dei palazzi e le villette. Un corso di cesteria oggi nelle scuole sicuramente incontrerebbe il favore di quei ragazzi che si sentono demotivati nell'apprendimento tradizionale.
Nei piccoli paesi a vocazione contadina si possono ancora trovare anziani contadini con mani esperte nel costruire cesti come una volta, disponibili sicuramente ad insegnare l'arte del cestaio, una figura lavorativa della tradizione, un mestiere destinato purtroppo a scomparire.

Andrea, un giovane della provincia di Cosenza laureato in storia ha ripreso un'arte antica e ha rilanciato il mestiere di cestaio sulle orme del nonno. Per imparare inizia a smontare i cesti realizzati dal nonno, ne scopre la tecnica e si appassiona. Oggi è diventato un esperto. Precisa il giovane studioso: preferisco restare qui, provare a campare con quel poco che mi consente l'artigianato o l'agricoltura e non puntare ad un lavoro migliore, dove si fatica meno e magari con più soddisfazioni ma che mi allontana dalla mia terra.

Fino a sessant'anni fa Gravina come le altre città della Puglia annoverava bravi cestai che partecipavano, con i loro manufatti, ai mercatini e anche ad alcune fiere. Poi il consumismo, la diffusione di contenitori in plastica o di cesti realizzati in serie nelle fabbriche, scadenti ma più economici, hanno fatto quasi tramontare quest'attività. L'industria turistica ha riacceso negli ultimi decenni i riflettori sulle attività artigianali con l'istituzione anche di corsi di formazione sugli antichi mestieri.

Vittorio Lupoli, un giovane di Locorotondo che ha deciso di intraprendere l'attività di cestaio grazie all'incontro con un maestro cestaio ormai anziano, ha avviato una bottega nel centro antico di Locorotondo che ha intitolato la Bottega del tempo perso. È sicuramente una provocazione perché Vittorio nella sua bottega ci lavora alacremente guadagnando bei soldini.
Si sta assistendo a un ritorno agli antichi mestieri da parte delle nuove generazioni. La riscoperta dell'artigianato parte da manualità e creatività. Molti antichi mestieri stanno vivendo un grande revival. In tante città italiane stanno nascendo associazioni e comitati per candidare diverse attività artistiche artigianali a patrimonio culturale immateriale dell'Unesco. Piccole e medie imprese sono alla ricerca di giovani lavoratori motivati a svolgere i mestieri di una volta, come ad esempio quello dell'impagliatore, esperto nella lavorazione della paglia e del vimine, che crea sedie, cestini di varia grandezza e contenitori per damigiane; l'intagliatore del legno per la decorazione e l'intarsio; lo scalpellino, conosciuto anche come artigiano della pietra che costruisce strutture utilizzando materiali di pietra grezza; l'ornatista specializzato in opere e lavori di pura ornamentazione in marmo e in tufo; il ramaio per la realizzazione di pezzi di artigianato come il pentolame da cucina; vasai, ricamatrici a mano, conciatori di pelle e fornai.

Una volta i giovani venivano avviati ad un mestiere prestando il loro lavoro gratuitamente nelle botteghe degli artigiani. Al termine del periodo di apprendistato acquisivano tutte le conoscenze necessarie per lavorare come fabbri, sarti e così via. Con la scomparsa dei maestri artigiani di un tempo, le mìste, depositari delle conoscenze teoriche e tecniche che caratterizzavano le attività, si rischia di giungere ad una irrimediabile perdita in fatto di abilità manuali e creative. Per il 2023 sono stati messi a disposizione dalla Regione Puglia 1,5 milioni di euro da destinare a progetti per contribuire alla crescita sociale ed economica delle aree interne del Mezzogiorno, recuperando antichi mestieri e tradizioni nonché favorendo l'inclusione sociale e lavorativa di persone in difficoltà.

Antonietta Cascarano (1899 - 1983) aveva imparato l'arte di fare i cesti dai suoi genitori che erano maestri di quella tradizione. Vendevano cesti in tutto il paese e si spostavano con il traino fino ad Altamura per incrementare il commercio. Antonietta cominciò a lavorare che era ancora una giovinetta, sempre seduta per terra a tenere ferma tra le gambe la cesta da comporre. Si alzava ogni giorno alle tre di notte in modo da riuscire a fabbricare in una giornata una decina di cesti di varie dimensioni. Sposò Cosimo Scarciolla che aveva il compito, in quella impresa di famiglia, di procurarsi il materiale necessario nel bosco comunale Difesa Grande, nel quale tagliava polloni e succhioni di querce (roverella, cerro e farnetto) le vegnjière de la macchie, rami pregiati e flessibili dai quali. nei tempi bui della guerra e della povertà, alcuni ricavavano persino l'olio per uso alimentare mediante una laboriosa procedura che partiva dalla cottura dei rami. Quei rami non si potevano neanche tagliare, era proibito. Ma come fare? Bisognava agire con cautela, senza farsi scorgere dalle guardie che potevano infliggere sanzioni molto salate per le tasche della povera gente. Allora qualche guardiano più comprensivo chiudeva un occhio e, in segno di riconoscenza, gli veniva donato un piccolo paniere della produzione artigianale.
I polloni di macchia, i vimini di salice e di tamerice, le canne venivano ammucchiate da Cosimo nel giardino del podestà don Vincenzo Tota al rione Fornaci. Le canne però venivano acquistate allo stato naturale o già tagliate per la lavorazione; in tal caso si pagava un prezzo superiore.
La famiglia Scarciolla riforniva di vimini anche gli altri cestai del paese. Qualcuno veniva a rifornirsi dai comuni vicini: in particolare un cestaio di Bitetto si presentava a casa Scarciolla ogni domenica con il tipico motocarro a tre ruote per approvvigionarsi. Con polloni, vimini e canne Antonietta sfornava cesti di forma e misura varie nonché i rivestimenti delle damigiane di vino (da cinque litri, da dieci e via via crescendo). Questi ultimi erano molto richiesti dai numerosi coltivatori e produttori di vino. I proprietari dei vigneti andavano personalmente dalla cestaia per ordinarne la produzione.

Così Antonietta la spórtarôre corrispondeva alle esigenze dei Vicino, degli Angellotti, dei Mastrogiacomo nella sua abitazione di Vico San Luca - Gravina in Puglia. Gli attrezzi da lavoro erano semplici, giacché bisognava saper lavorare soprattutto con le mani. Con il coltello uncinato, la roncola o rungedde, si tagliavano nel bosco i vimini, che venivano poi ripuliti con le mani. In mezzo ad un cannuolo di canna o di salice si facevano scorrere i vimini da intrecciare. In principio al bosco si andava e si tornava a dorso di asinello, in seguito fu utilizzato il trainetto, la trajinèdde, che si faceva costruire più stretta del traino normale per renderlo non carrozzabile in modo da non pagare le tasse. Il materiale di risulta serviva per accendere il fuoco delle cucine a legna e per riscaldarsi.

Si usava di tutto in quell'epoca di povertà, tutto il materiale in grado di ardere, compresa la paglia delle fave. Una giovane donna di appena trent'anni, Nenetta Dibenedetto, madre di famiglia, lavorava nella masseria La bella Felippe sulla strada per Irsina. Un giorno prese fuoco mentre alimentava con la paglia di fave la cucina del casolare e perse la vita. I cesti o panari erano differenziati a seconda del loro uso e venivano acquistati da persone di tutte le categorie sociali, dai ricchi e dalla gente comune. C'erano i cesti per il mangime da dare ai cavalli, quelli per la vendemmia, per le barbabietole, per mettervi il letame delle stalle, u rumête, il cesto per la biancheria, il cesto dei taralli, il paniere per i fichi, u panarjiedde per le uova. Antonietta li vendeva a quanti si recavano a casa sua, mentre Cosimo e il figlio Peppino li portavano in giro per il paese.

A Gravina operavano quattro o cinque cestai, ma in quegli anni al primo posto per vendita di cesti e di vimini c'era Antonette la spórtarôre. Oggi Francesco Caprio - classe 1948 - vende ancora cesti, sulla circonvallazione, fatti a mano nella sua abitazione di via dei Santi Apostoli a Gravina.
Il mestiere di Antonietta è nato e cessato con lei. È durato fino agli anni sessanta. Nessuno dei suoi figli ha svolto quell'attività, a parte Giuseppe Scarciolla, detto Peppino che ne ha seguito l'evoluzione più da vicino. Lui è nato nel rione Fornaci ed è cresciuto in Cavato Sant' Andrea, dove la famiglia si trasferì nel 1952. Suo padre Cosimo aveva problemi di salute, si ricoverava spesso in ospedale, perciò Peppino dava di buon grado un aiuto alla mamma. E per farlo dovette abbandonare ogni velleità di andare a scuola. Le vicissitudini della famiglia lo portarono in direzioni diverse. Da piccolo fu mandato a lavorare come pastorello nella masseria Protomastro di Poggiorsini. Ha lavorato sotto padrone, da don Ciccio Mastrogiacomo. Quando dall'età di sei anni accompagnava al bosco sua madre, questa lo teneva sempre d'occhio talmente era piccolo. Tuttavia qualche volta si perdeva e la cagna di Antonietta andava a rintracciarlo e lo riconduceva dalla mamma.
Gli Scarciolla erano attivisti del Partito Comunista Italiano e parteciparono agli scioperi, alcuni violenti, dei primi anni cinquanta. Suo padre Cosimo era assegnatario di una quota di terreni agricoli concessi dall'Ente di Sviluppo della Puglia. Una trentina di scioperanti furono segnalati per i disordini al Commissariato di Polizia e, come conseguenza, furono estromessi dai terreni in concessione. Tra questi c'erano gli Scarciolla. Su suggerimento dell'avvocato don Tonino Borraccia, figlio di Michele, notaio dell'epoca noto per la stipula degli atti di concessione delle quote fondiarie, Cosimo chiese ed ottenne la buonuscita. Con questa fu acquistata un'abitazione più grande sotto l'arco di Cavato Sant'Andrea. Peppino, anche lui attivista del PCI, ebbe l'opportunità di presentarsi da privatista agli esami per la licenza di scuola elementare, grazie a un'articolata intermediazione del sindaco dell'epoca Onofrio Petrara, di don Ciccio Mastrogiacomo e del maestro elementare Saverio Tremamunno. Il titolo di studio, conseguito con il giudizio di ottimo, gli consentì a trentatré anni di occupare il posto di guarda-giardino su apposita delibera di Giunta comunale. Finalmente un'occupazione stabile, fonte di reddito sufficiente e sicuro.

Quantunque il giro commerciale messo in moto da Antonietta assicurasse un buon sostegno alla famiglia, per Peppino il lavoro da guardiano della pineta comunale rappresentò un salto di qualità e lui conosceva bene la differenza tra alzarsi la mattina presto per il duro lavoro al bosco e osservare un più comodo orario di lavoro, speso ad osservare luoghi e frequentatori, a far rispettare le regole. Oggi Peppino vive da solo. La moglie Antonietta Di Palo è scomparsa prematuramente e i quattro figli maschi hanno preso strade e mestieri diversi dal suo. Il più piccolo Mimmo, che è ragioniere, lo sente al telefono o di persona tutti i giorni per rassicurarsi. Da oltre cinquant'anni Peppino vive con un solo rene, avendo perso l'altro a causa di una errata diagnosi medica. Ciononostante gestisce autonomamente la propria vita privata, non lamenta limitazioni di natura fisica. È rimasto il custode solitario delle memorie di famiglia, uno degli ultimi testimoni diretti di come si svolgeva l'arte di costruire sporte e di come si viveva nel piccolo angolo di Sant'Andrea nel centro antico di Gravina.

Riaffiorano i ricordi delle famiglie Loglisci, Spinelli, Marchetti, Giannelli, Gigante, Savino e del buon rapporto di vicinato. Certo, nei tempi bui, ci furono anche episodi spiacevoli. In quei tempi gli anziani giocavano a carte nei portoni delle case. Anche suo padre Cosimo, in età avanzata, passava così il suo tempo libero. Da quelle parti abitavano i Desiante, denominati le céntrudde, che giocavano a carte anche loro e avevano preso a deridere Cosimo, provocandolo con il riferimento alla sua età anziana. Un giorno il livello di provocazione raggiunse il limite della sopportazione e Cosimo reagì con violenza. I due antagonisti vennero alle mani e u céntrudde ebbe la peggio con un profondo graffio sul viso. Cosimo si nascose per un po' di tempo per paura di denunce da parte dell' offeso. Ma la situazione non poteva durare a lungo. Per sbloccarla, un suo parente stretto, che venne a scoprire il nascondiglio, fece visita a Cosimo e gli provocò due grandi graffi al volto, uno in più rispetto allo sgarro subito dall'avversario. I due contendenti così, di fronte alle prove materiali della contesa, si accordarono per chiuderla definitivamente.

Fonte:
Libro di Michele Gismundo - Giuseppe Marrulli, MESTIERI E SOCIETA' nel Novecento a Gravina in Puglia, ed. Algramà, Matera 2023. Immagine da sito web senza diritti di copyright.
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