Passeggiando con la storia
Cesare Brandi: “salvatore” degli affreschi di San Vito Vecchio
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 16 settembre 2021
La puntata odierna ho deciso di dedicarla a Cesare Brandi, ritenuto, a giusta ragione "il salvatore" degli affreschi bizantineggianti della chiesa rupestre di San Vito Vecchio, quelli che, attualmente, sono visitabili e fruibili presso la Fondazione Ettore Pomarici Santomasi.
Cesare Brandi, storico e critico d'arte, fondatore nel 1939 dell'Istituto Centrale del Restauro di Roma di cui è stato, anche, il primo direttore fino al 1959; viaggiatore e scrittore prolifico ha saputo cogliere le bellezze nascoste, sconosciute di un mondo e di una Puglia, sotto l'aspetto umano, esistenziale, artistico, rifuggendo da quelle che, all'epoca, erano di moda come ricerche sociologiche, politiche di mondi inesplorati, ma soffocati dalla cappa della miseria, della povertà e dello sfruttamento. Nulla di tutto ciò.
Uno dei suoi viaggi lo compì in Puglia, passando, anche dalla nostra città, cercando quelle che erano le chiese eremitiche, rupestri, ricche di tesori artistici. Nel suo Pellegrino di Puglia, libro pubblicato all'indomani della sua esperienza pugliese, tra stupore, meraviglia ed amarezza, egli fa visita, nel bel mezzo di un'estate degli anni50 del secolo scorso, alla chiesa di San Michele delle Grotte e, successivamente, alla chiesa di San Vito Vecchio.
Tralasciando la sua descrizione sulla chiesa di San Michele, che pure è presente all'interno del testo citato, quello che interessa, in questa sede, è riportare il suo giudizio e su ciò che si presentò alla sua vista dinanzi alle pitture murarie di San Vito Vecchio, tanto da fargli maturare l'idea o confermarla, della tecnica dello stacco dai siti originari, di tutte quelle pitture, comprese le nostre, che erano in pericolo di sopravvivenza, e porle in sicurezza. Lontane da ogni forma di degrado, di scomparsa, danneggiamenti e trafugamenti.
Leggiamo il suo racconto: "Seguì la ricerca della Cripta di San Vito Vecchio. E questa era data come rinchiusa in un orto e che vi si accedesse dall'alto. Un bambino fu messo a farci da guida. Il bambino si chiamava Michele. Era fresco e belluino Michele, era nero e lampeggiante in quell'angoletto di bianco che le pupille scurissime lasciavano libero agli occhi. A un certo punto si fermò. E c'era un masso alto, con una voragine accanto, dover era stata tagliata tutta la pietra che avevano trovato utile di estrarre.
Risultò che quello era l'orto, ridotto ad una latomia (Nell'antichità greco-romana erano cave di pietra o di marmo usate per incarcerare schiavi, prigionieri di guerra o delinquenti in genere.N.d.r.). E per entrare nella cripta invece di scendere convenne salire: il caso era degno di nota. Ma salire non fu facile, perché proprio la parete era stata tagliata a piombo e bisognò servirsi di labili tacche nella pietra per arrampicarsi. Arrivati in cime, ecco, che si scopre l'orifizio, che, quando, invece di esserci un baratro, lì c'era un orto, dava un accesso dal soffitto. Era la volta di calarsi. E sotto i nostri piedi rotolarono le pietre che dovevano servire a scendere.
Io pensavo amaramente a chi s'illude di farci del turismo, con codeste cripte, e vorrebbe lasciare i dipinti sul posto". (In questa considerazione sta tutto il succo dell'opera meritoria svolta da Brandi). Riprendiamo la narrazione. "Questa di San Vito, che da cripta sotto terra era diventata uno spezzone di sasso da arrampicarcisi come su una parete di montagna, non si sa a chi potesse essere dedicata, se agli studiosi o ai rocciatori.
Le pitture si trovano in uno stato miserabile, e l'isolamento fittizio della roccia non è stato di nessun giovamento, tutt'altro. Perché ora le infiltrazioni d'acqua avvengono anche dai lati oltre che dall'alto, e lo dimostrano le bave appiccicose e biancastre che uscivano, come resti di sapone da barba, dai bordi delle vecchie cadute dell'affresco e ne avrebbero prodotto di nuove, mentre lo strato già vetrino del carbonato fa vedere ormai quel che resta da sotto una pellicola opaca" (Le immagini allegate sono eloquenti).
"Risalire fu più difficile che scendere: occorse formare pazientemente la pila delle pietre, e quelle rotolavano, si rimettevano su e cascavano di nuovo. Ma alla difficoltà dell'accesso si dové almeno di non trovare, come sempre, la cripta ridotta a gabinetto di decenza. E anche questa valga per chi vuole conservare ad ogni costo le cose dove stanno, per i romantici dei ragnateli e del letame".
Amara conclusione, ma fortunatamente, almeno per quanto riguarda quei dipinti, a differenza di altri che hanno avuto sorte peggiore, essendo andati persi, distrutti, se non , addirittura trafugati, il progetto di Brandi prese piede, corpo e sostanza. Furono staccati, restaurati e posizionati in quel posto sicuro dove, attualmente, si trovano. Alla luce di questo racconto, di questo passato positivo, che non ha pregiudicato la sopravvivenza di quelle pregevoli d'opere d'arte, la Fondazione Pomarici Santomasi, depositaria di quegli affreschi, la cui proprietà, però, appartiene allo Stato, nell'ambito delle sue celebrazioni centenarie, sabato prossimo, 18 settembre, alle ore 19.00, presso la Sala Convegni, renderà, giustamente e doverosamente il suo omaggio, la sua incommensurabile gratitudine al pioniere Brandi, intitolandogli la sala dove sono allocati quelle opere, testimonianze delle pitture e dell'arte bizantina o bizantineggiante.
Cesare Brandi, storico e critico d'arte, fondatore nel 1939 dell'Istituto Centrale del Restauro di Roma di cui è stato, anche, il primo direttore fino al 1959; viaggiatore e scrittore prolifico ha saputo cogliere le bellezze nascoste, sconosciute di un mondo e di una Puglia, sotto l'aspetto umano, esistenziale, artistico, rifuggendo da quelle che, all'epoca, erano di moda come ricerche sociologiche, politiche di mondi inesplorati, ma soffocati dalla cappa della miseria, della povertà e dello sfruttamento. Nulla di tutto ciò.
Uno dei suoi viaggi lo compì in Puglia, passando, anche dalla nostra città, cercando quelle che erano le chiese eremitiche, rupestri, ricche di tesori artistici. Nel suo Pellegrino di Puglia, libro pubblicato all'indomani della sua esperienza pugliese, tra stupore, meraviglia ed amarezza, egli fa visita, nel bel mezzo di un'estate degli anni50 del secolo scorso, alla chiesa di San Michele delle Grotte e, successivamente, alla chiesa di San Vito Vecchio.
Tralasciando la sua descrizione sulla chiesa di San Michele, che pure è presente all'interno del testo citato, quello che interessa, in questa sede, è riportare il suo giudizio e su ciò che si presentò alla sua vista dinanzi alle pitture murarie di San Vito Vecchio, tanto da fargli maturare l'idea o confermarla, della tecnica dello stacco dai siti originari, di tutte quelle pitture, comprese le nostre, che erano in pericolo di sopravvivenza, e porle in sicurezza. Lontane da ogni forma di degrado, di scomparsa, danneggiamenti e trafugamenti.
Leggiamo il suo racconto: "Seguì la ricerca della Cripta di San Vito Vecchio. E questa era data come rinchiusa in un orto e che vi si accedesse dall'alto. Un bambino fu messo a farci da guida. Il bambino si chiamava Michele. Era fresco e belluino Michele, era nero e lampeggiante in quell'angoletto di bianco che le pupille scurissime lasciavano libero agli occhi. A un certo punto si fermò. E c'era un masso alto, con una voragine accanto, dover era stata tagliata tutta la pietra che avevano trovato utile di estrarre.
Risultò che quello era l'orto, ridotto ad una latomia (Nell'antichità greco-romana erano cave di pietra o di marmo usate per incarcerare schiavi, prigionieri di guerra o delinquenti in genere.N.d.r.). E per entrare nella cripta invece di scendere convenne salire: il caso era degno di nota. Ma salire non fu facile, perché proprio la parete era stata tagliata a piombo e bisognò servirsi di labili tacche nella pietra per arrampicarsi. Arrivati in cime, ecco, che si scopre l'orifizio, che, quando, invece di esserci un baratro, lì c'era un orto, dava un accesso dal soffitto. Era la volta di calarsi. E sotto i nostri piedi rotolarono le pietre che dovevano servire a scendere.
Io pensavo amaramente a chi s'illude di farci del turismo, con codeste cripte, e vorrebbe lasciare i dipinti sul posto". (In questa considerazione sta tutto il succo dell'opera meritoria svolta da Brandi). Riprendiamo la narrazione. "Questa di San Vito, che da cripta sotto terra era diventata uno spezzone di sasso da arrampicarcisi come su una parete di montagna, non si sa a chi potesse essere dedicata, se agli studiosi o ai rocciatori.
Le pitture si trovano in uno stato miserabile, e l'isolamento fittizio della roccia non è stato di nessun giovamento, tutt'altro. Perché ora le infiltrazioni d'acqua avvengono anche dai lati oltre che dall'alto, e lo dimostrano le bave appiccicose e biancastre che uscivano, come resti di sapone da barba, dai bordi delle vecchie cadute dell'affresco e ne avrebbero prodotto di nuove, mentre lo strato già vetrino del carbonato fa vedere ormai quel che resta da sotto una pellicola opaca" (Le immagini allegate sono eloquenti).
"Risalire fu più difficile che scendere: occorse formare pazientemente la pila delle pietre, e quelle rotolavano, si rimettevano su e cascavano di nuovo. Ma alla difficoltà dell'accesso si dové almeno di non trovare, come sempre, la cripta ridotta a gabinetto di decenza. E anche questa valga per chi vuole conservare ad ogni costo le cose dove stanno, per i romantici dei ragnateli e del letame".
Amara conclusione, ma fortunatamente, almeno per quanto riguarda quei dipinti, a differenza di altri che hanno avuto sorte peggiore, essendo andati persi, distrutti, se non , addirittura trafugati, il progetto di Brandi prese piede, corpo e sostanza. Furono staccati, restaurati e posizionati in quel posto sicuro dove, attualmente, si trovano. Alla luce di questo racconto, di questo passato positivo, che non ha pregiudicato la sopravvivenza di quelle pregevoli d'opere d'arte, la Fondazione Pomarici Santomasi, depositaria di quegli affreschi, la cui proprietà, però, appartiene allo Stato, nell'ambito delle sue celebrazioni centenarie, sabato prossimo, 18 settembre, alle ore 19.00, presso la Sala Convegni, renderà, giustamente e doverosamente il suo omaggio, la sua incommensurabile gratitudine al pioniere Brandi, intitolandogli la sala dove sono allocati quelle opere, testimonianze delle pitture e dell'arte bizantina o bizantineggiante.