Gli Argenti del Museo Capitolare d’arte Sacra di Gravina in Puglia
Gli Argenti del Museo Capitolare d’arte Sacra di Gravina in Puglia
Passeggiando con la storia

Gli Argenti del Museo Capitolare d’arte Sacra di Gravina in Puglia

Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari

Ovviamene, non sono stati considerati tutti i pezzi conservati presso la struttura diocesana dove sono allocati. Abbiamo scelto i più preziosi, i più importanti, i più belli, i più significativi. La Sala degli argenti racchiude calici e reliquiari dal XV al XVIII secolo, tra cui l'effigie di San Filippo Neri, il pastorale donato da papa Benedetto XIII alla Chiesa Cattedrale di Gravina e utilizzato per la canonizzazione di San Luigi Gonzaga e San Stanislao Kostka. Se, però, oggi, abbiamo potuto fare una puntatina in questo scrigno d'arte e di fede, lo si deve alla pubblicazione: Gli argenti del Museo capitolare d'arte sacra di Gravina in Puglia, 2003, Corcelli Editore Bari, curata da Giovanni Boraccesi, esperto conoscitore, studioso e autore di numerose pubblicazioni sull'argenteria sacra.

Il nostro viaggio inizia con un pezzo forte: il Reliquiario della Croce, secolo XII – XIII, eseguito in argento e rame dorato. "L'importanza del reperto, di per sé straordinario e acquisito agli studi solo in anni recenti, non è solo nella vetustà che lo contraddistingue, il nome vescovo Sanuele inciso sul basamento porta a datare quest'elemento tra il 1215 e il 1244, quanto per il fatto che qui sono riportate le generalità dell'artefice: "Magister Egidius fecit hoc opus in civitate Gravine", (Maestro Egidio realizzò quest'opera nella città di Gravina). Il riferimento non è di poco conto, perché accerta in modo incontrovertibile l'attività, almeno in età sveva, di un laboratorio orafo cittadino".

Un pezzo di assoluto pregio è il reliquiario di San Gregorio Taumaturgo, vescovo di Neocesarea, vissuto nel III secolo, rinvenuto dallo stesso Boraccesi, alcuni anni fa nel Monastero di Santa Maria delle Domenicane. "Il frammento osseo del Santo è custodito in un prezioso scrigno di cristallo rocca e argento dorato, che presenta una insolita struttura a piramide, il tutto supportato da quattro zampe leonine. Gli anni di questa raffinata impresa, da ascrivere ad un ignoto orafo veneziano, non possono discostarsi molto dal secondo-terzo decennio del XV secolo.

Il caso più esemplare è la Croce d'altare, ma in principio una stauroteca (contenitore del sacro legno). La netta differenza stilistica tra il basamento caratterizzato da ampie volute e da motivi vegetali, per la croce è evidente. Ciò porta a ritenere che il basamento, opera di un ignoto napoletano della metà del 700, sia stato realizzato per sostenere la croce, certamente più antica di un secolo e tuttavia dopo il 1677. Nel 1714 è registrata nella Visita Apostolica del cardinale Orsini. La croce in argento pieno, si avvale di un repertorio vegetale minuziosamente inciso su entrambe le traverse; nella parte posteriore, all'incrocio dei bracci, sono disegnati i tre chiodi e la corona di spine. Sempre nell'intersezione delle traverse, sono inseriti quattro gigli traforati mentre altri decorano i terminali, guarnite da testine di angeli tra volute contrapposte.

Denuncia ascendenze napoletane l'esecuzione dello splendido calice in argento massiccio, da date all'ultimo quarto del XVII secolo. Proviene dal Monastero di Santa Maria delle Domenicane, e come la croce appena descritta, è un dono della duchessa Giovanna Frangipane della Tolfa. Il programma iconografico del calice è quello innanzitutto di illustrare la Passione di Cristo attraverso i consueti simboli, qui trattenuti da coppie di angeli collocati nel sottocoppa traforato. Accanto a questo programma, ve n'è un altro più strettamente personale che vede coinvolta la sola committenza, ovvero Giovanna Frangipane della Tolfa, come si evince dal proprio stemma ducale replicato per ben tre volte sul basamento, intervallato a graziose statuine di angeli alati. Nel nodo, a jour, sono installate le figure a tutto tondo del Crocifisso, della Vergine Addolorata e di San Giovanni Evangelista.

Alla munificenza della stessa Giovanna spetta un altro oggetto liturgico particolarmente lussuoso, quale l'ostensorio, eseguito a fusione e con alcune parti a traforo e con decorazioni di gusto barocco. Il piede di forma mistilinea, è incrostato da decori vegetali e da quattro carnose foglie che dopo aver attraversato l'intero collo del piede, si raggruppano appena sotto il collarino.
Il fusto, dall'elaborato schema formale, presenta un insolito nodo costituito da quattro robuste volute collocate agli spigoli, con un effetto di grande leggerezza. Sulla facciata principale del nodo, all'interno di un cartiglio liscio, fa bella mostra lo stemma della duchessa Giovanna Frangipane della Tolfa. Nella terminazione superiore si inserisce, per mezzo di un perno, il ricettacolo adorno di raggi. All'inizio di questo sono posti due grappoli d'uva e altrettante testine di angeli: tralci di vita, dalle foglie d'argento ancora smaltate di verde, sono applicate sul bordo superiore della teca circolare. Da qui s' imposta il fastigio sormontato da una croce gigliata.

Un'altra suppellettile degna di menzione è il reliquiario a busto di San Filippo Neri, goà in Cattedrale, realizzato nel 1695 come riferisce l'iscrizione incisa sui due piedini in basso S. PHILIPPI NERI 1695. All'infuori della testa eseguita con la tecnica della fusione a cera perduta, tutto il resto è costituito da sottili lamine metalliche, sagomate su un mezzobusto ligneo in argento meccato, ciò rivela un sicuro rapporto artistico tra l'argentiere statuario e lo scultore ligneo.
Due grandi volute sovrapposte, includenti un cuore infiammato, fungono da supporto alla sovrastante scultura, germogliante da foglie d'acanto. Interessante la figura rapita nel momento della contemplazione di Dio e più propriamente della Madonna Vallicelliana. Perfetto per le annotazioni naturalistiche, il santo indossa una pianeta sacerdotale finemente sbalzata e cesellata con motivi floreali. La teca della reliquia, in bronzo dorato, si apre nel mezzo del petto. L'aureola è a traforo". Il piccolo manufatto, come dono alla Chiesa di Gravina, è riconducibile al cardinale Frà Vincenzo Maria Orsini, devotissimo del santo fiorentino a tal punto da farlo proclamare Patrono minore della nostra città.

"Un certo interesse ha il calice in argento lavorato a giorno, già custodito in Cattedrale. Questo manufatto del quale non sfugge il brioso effetto chiaroscurale, appartiene a una tipologia assai frequente non meno che degli stessi elementi ornativi, volti ad illustrare gli strumenti della Passione di Cristo: nel sottocoppa trattenute da figurine di angeli alati. Nel nodo piriforme è posta la statuina dell'Immacolata.

Per efficacia tecnica e per decoro plastico si fa apprezzare il reliquiario di San Tommaso Becket, datato 1714, che di sicuro occupa un posto di assoluto rilievo nel panorama degli argenti esibiti dal Museo. Su un basamento a tronco di cono, ornato da una lussureggiante vegetazione e da due grandi volute fogliacee, allignano due microsculture di angeli paffutelli, posti frontalmente: quello di sinistra regge una croce astile e il libro del Vangelo, quello di destra un pastorale e la mitria. Con le altre mani sostengono un contenitore vitreo, a fiala, inserito in una montatura metallica costituita da due robuste e movimentate palme, che interrotte da testine di angeli alati, confluiscono sotto un'unica corona del martirio. Su un cartiglio posto sul basamento, la data AD/1714. Sotto il piede è il sigillo cereo del vescovo Vincenzo Salvatore (1872 – 1899). L'artefice di questo reperto, sicuramente un argentiere napoletano di prim'ordine, è purtroppo ignoto.

La pisside è un'ulteriore affermazione della preziosa suppellettile di cui in passato si dotò la Cattedrale; nel contempo è una testimonianza della sensibilità estetica del suo ignoto committente. La pisside si articola in due elementi ben distinti: il piede, articolato sia nella forma sia nell'ornamentazione; la coppa lavorata a traforo con volute, testine cherubini che e fogliami. Arricchisce quest'ultimo elemento, la presenza di diversi castoni che trattengono gemme multicolori. Nella parte sommitale del coperchio, è posta una corona di testine di angeli che funge da supporto alla sovrastante croce gemmata. L'esecuzione della pisside, da datare al secondo decennio del Settecento, spetta ad un ignoto argentiere napoletano, mai prima d'ora incontrato, che utilizza come proprio emblema di riconoscimento le lettere N.D:F: chiuse in un rettangolo. Gli altri due punzoni qui presenti sono quelli dell'arte (NAP 72?) e del console Sebastiano Avitabile che ricoprì più volte questa carica e per noi significativamente nel 1721, nel 1724 e nel 1726.

Da Roma proviene un prezioso calice, fin da principio destinato alla chiesa ducale del Purgatorio. Sotto il piede, all'interno di un cartiglio, è incisa la data AN° DNI MDCCXXIX. L'opera è eseguita in argento massiccio, e con dorature che investono le testine degli angeli alati uscenti dal corpo del calice. Oltre a ciò, caratteristica saliente di questo pezzo è l'esagerato suo dinamismo e i suoi ornati che in maniera capillare sono distribuiti sulla base tripartita, sull'alto fusto e sul sottocoppa che, assieme alla base, ostenta i simboli della Passione. L'assenza di punzoni non favorisce il suo preciso inserimento geografico, ma, come anticipato, supponiamo trattarsi di una suppellettile di manifattura romana commissionata da un illustre componente della famiglia Orsini: nel 1729 il soglio pontificio era occupato da Benedetto XIII.

Ancora un esempio di oreficeria romana è il calice in argento dorato che assieme alla corrispettiva patena fu realizzato nel 1757. La sicura provenienza del reperto è dovuta al marchio camerale di garanzia dello Stato Pontificio: un ombrellino liturgico con due chiavi decussate; illeggibile, invece, è un altro bollo. L'alta qualità del pezzo assume particolare rilevanza nell'essere il dono, come da iscrizione sotto il piede, di Giacinta Orsini, moglie di Antonio Maria Boncompagni Ludovisi duca d'Arce (Frosinone) e principe di Piombino, morta a Roma a soli 18 anni. Sotto il piede, infatti, oltre al ricco stemma è incisa la seguente iscrizione: GIACINTA ORSINI BUONCOMPAGNI LUDOVISI DUCHESSA D'ARCI ANNO 1757".
Un pezzo non compreso nella raccolta descrittiva e storica del Boraccesi, ma facente parte del patrimonio artistico e religioso del Museo d'Arte Sacra gravinese è l'ostensorio realizzato in occasione del Congresso Eucaristico Interdiocesano, svoltosi nella Diocesi di Gravina – Irsina, dal 21 al 28 maggio 1967. L'ostensorio, alto circa un metro, del peso di Kg 5.600, in oro 18 carati e argento 800, fu realizzato dalla rinomata ditta Catello di Napoli. Il piede dell'ostensorio è ornato con quattro topazi e quattro bassorilievi, finemente cesellati in argento e riproducesti l'immagine dell'Assunta, dipinta sul soffitto della Cattedrale, la statua in pietra di San Michele, Patrono della città, lo stemma di Mons. Giuseppe Vairo e quello del Comune di Gravina.

Dal piede s'innalza pure fusa in argento, l'asta di impugnatura, impreziosita mano mano dall'ametista dell'anello episcopale, che Mons. Aldo Forzoni, già vescovo della nostra Diocesi, volle far pervenire nel giorno della raccolta dell'oro e dell'argento che consentisse la reralizzazione di questo omaggio a Gesù Eucarestia. Da una spilla, donata da una pia signora, e dall'anello episcopale di Mons. Vairo. Sull'asta di impugnatura s'innesta la sfera della camera dell'Esposizione, all'interno della quale è incastonato un prezioso brillante. Sul cerchio d'oro sono state fissate 24 pietre tra zaffiri ed ametiste. Finemente incisi in oro i simboli dei quattro evangelisti, hanno trovato posto sulle traverse della Croce attorno alla finestrella. Tutta la sfera, poi è sormontata da una croce, l'aurea croce pettorale che i fedeli di Gravina donarono a Mons. Forzoni, in ricordo del suo episcopato, quando nel gennaio 1962 fu trasferito nella Diocesi di Teggiano.
  • Giuseppe Massari
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