Passeggiando con la storia
Il Carnevale di Gravina: la sfilata degli aratori e seminatori
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 30 gennaio 2025
Riprendendo lo studio di Ferdinando Mirizzi sul Carnevale di Gravina, riproponiamo la storia della sfilata degli aratori e seminatori, che si svolgeva sempre nello stesso periodo di carnevale dal 1984 al 1988, il martedì grasso, ultimo giorno di Carnevale, nelle prime ore del pomeriggio, davanti alla chiesa di Sant'Agostino si cominciava ad avvertire un'animazione crescente, con ragazzi ed adulti vestiti con vecchi abiti e col volto annerito o coperto con barba e baffi, occhiali e nasi finti, o con maschere di plastica di vario genere. E poi un insolito raduno di muli, traini, aratri ed altri strumenti agricoli a trazione animale o di uso manuale.
Si preparava il tradizionale corteo degli aratori e dei seminatori, che riproponeva a Gravina uno dei cerimoniali carnevaleschi più ricorrenti e diffusi nell'Europa contadina, dalla Grecia alla Spagna, dalla Germania all'Inghilterra, oltre naturalmente all'Italia: la cosiddetta «aratura rituale», consistente nel trascinamento di uno o più aratri per le vie del paese, che riproduceva metaforicamente e in una «dimensione rovesciata» una situazione `normale' della vita quotidiana. Ora, se l'«aratura rituale» costituisce uno dei motivi costanti dei carnevali tradizionali e si riporta indubbiamente ad antichissimi modelli, ogni specifica «sfilata di aratri» deve, però, essere letta – tenendo anche conto degli elementi di recente formazione ed immissione – all'interno del suo contesto storico e sociale, nel quale trova motivazioni e ragioni, evitando così ipotesi esplicative generiche, in base a presunte, primitive, astratte e generalizzate esigenze di propiziazione e di fecondità della terra, che si potrebbe essere tentati di formulare per la suggestiva eredità di approcci interpretativi trasmessa, a chi si occupa di folklore, da certa antropologia di fine Ottocento attraverso soprattutto la lettura del Ramo d'oro di J.G. Frazer.
A Gravina, dunque, il corteo mascherato tendeva in maniera specifica a riprodurre fedelmente, su fittizie coordinate spaziali e temporali, le diverse fasi del ciclo della semina, rappresentandone metaforicamente gli atti, le situazioni, gli uomini, gli animali, gli attrezzi, in una sorta di museo vivente dotato di forte carica suggestiva e di notevole valore comunicativo, rafforzato dalla teatralità dei gesti e dalla immedesimazione nella parte dei protagonisti, attori in fondo di sé stessi. Il corteo era aperto e guidato dal «massaro», quasi sempre Domenico Olivieri, 57 anni, organizzatore riconosciuto della mascherata per diritto familiare (prima di lui ad organizzarla era il padre, e prima ancora il nonno) e per particolare competenza nell'uso degli attrezzi e nella esecuzione dei lavori, che svolgeva la funzione, proprio come un vero massaro, di sovrintendere, dirigere e controllare gli altri contadini impegnati perché tutto procedesse regolarmente e nel migliore dei modi.
Ognuno aveva un compito specifico, assegnatogli in base alle proprie capacità e conoscenze. Il primo personaggio della sfilata, dopo il massaro, era il misuratore (u cumbassatòre), colui che aveva il compito di delimitare le porche, cioè le fasce di terreno, generalmente larghe tre passi, entro cui si tracciavano parallelamente i solchi, in numero quasi sempre di 18, prima della semina. U cumbassatòre si serviva per questo di una verga lunga appunto tre passi (circa 2 metri e mezzo) e una serie di canne recanti all'estremità due o tre penne di gallina (dette le magnaule), che piazzava ad una distanza di venti-trenta passi l'una dall'altra, in modo da costituire precisi punti di riferimento per la tiratura del solco.
Quest'ultima operazione spettava ad un lavorante chiamato u 'mburcuataure (assolcatore), che guidava un aratro di legno con vomere simmetrico (nelle diverse edizioni della sfilata sono stati usati pressoché indifferente-mente l'aratro a bure lunga e a due tiri, detto arète nustròele, e quello a bure corta e ad un tiro chiamato u segghjòne) trascinato da uno o due muli. All'assolcatore seguivano i seminatori, dotati di una bisaccia e generalmente col viso coperto da un passamontagna, che spandevano nelle strade attraversate, secondo la tecnica della semina a spaglio, semi di grano o di orzo (nel passato più spesso si usavano cenere, farina o (tufina»).
Il ciclo era poi `filologicamente' completato da uno o più aratori, che fingevano di ricoprire le sementi sparse, e da un contadino con un mulo, che trascinava un erpice snodato, del tipo «Howard» (chiamato u skurve), avente la funzione metaforica di completare la copertura dei semi ed appaiare il terreno.
Così si concludeva il ciclo della semina, e così erano strutturate le sfilate del martedì grasso che si realizzavano fino ad una trentina di anni fa, pantomime in presa diretta dal vero, in cui i contadini si travestivano da contadini e rappresentavano, simulandole in un apparato scenografico urbano, le azioni e le situazioni che realmente vivevano in campagna, in un gioco strano in cui ciascuno era praticamente il doppio di sé stesso. Le sfilate organizzate dall'84 all'88, invece, oltre ad inglobare il corteo funebre, un tempo autonomo, che accompagnava il fantoccio di Carnevale – costituito, secondo la tradizione gravinese, prevalentemente da donne vestite di nero con funzione di lamentatrici -, erano arric-chite variamente da altre figure lavorative ed altri strumenti, estranei al ciclo della semina: ad esempio, attrezzi usati nei vigneti, traini, oggetti pastorali, utensili domestici.
Il tutto a scopo dimostrativo, «per far vedere», mi ha detto Domenico Olivieri, perché le giovani generazioni conoscano gli strumenti, le tecniche, le strutture e le modalità di vita del passato e prendano coscienza delle loro radici culturali. La mascherata ha assunto così il senso di una rievocazione scenica delle attività agricole scomparse e, in genere, di un sistema di vita e di produzione ormai superato e vivo solo nella memoria di chi lo ha diretta-mente conosciuto e sperimentato.Pertanto, ]'«aratura rituale» del Carnevale gravinese ha perso totalmente, se in realtà mai li ha avuti, i suoi agganci significanti con le cerimonie d'inizio d'anno legate all'auspicato regolare avvicendamento dei cicli produttivi, così come non è più leggibile semplicemente alla stregua di una tipica componente del classico e carnevalesco.
Qui sotto: la delimitazione delle porche» (19861).«mondo alla rovescia», ed è invece divenuta essenzialmente una rappresentazione memoriale, che utilizza per la sua organizzazione e il suo svolgimento tutti i meccanismi di scelta, selezione e trasmissione propri della memoria come atto di ricostruzione e ricomposizione delle esperienze passate in un insieme strutturato comunicabile e usufruibile in funzione sociale. Il corteo si concludeva, secondo la tradizione, in piazza della Repubblica dove, ad imitazione di quanto avveniva nelle masserie a fine giornata, il «massaro» mostrava una grossa caldaia di pancotto, che veniva distribuito tra i vari lavoratori come giusta ricompensa e legittimo sostentamento per il lavoro svolto e la fatica sopportata.
L'essenza della sfilata gravinese degli aratori e dei seminatori degli anni Ottanta, al di là di quelli che si potrebbero considerare i suoi significati originari, sta sostanzialmente nella identificazione con i suoi protagonisti, tutte persone «serie e stabili», come mi ha puntualizzato Domenico Olivieri, persone «adattate», cioè pratiche del mestiere e consapevoli del loro ruolo paradigmatico ed esemplificativo di una situazione realmente vissuta e con-vinti di essere portatori di una tradizione che è espressione autentica di una «antichità storica», secondo un'espressione dello stesso Olivieri, da conservare e tra-smettere. E probabilmente quel Carnevale fa parte proprio della storia individuale di quel gruppo di contadini, oltre che di una storia più ampiamente e genericamente collettiva.
Ed in questa identificazione, a mio avviso, sta la forza trainante di un cerimoniale che costituisce per i suoi protagonisti un concreto referente per la riaffermazione di una specifica identità culturale e che può continuare ad esistere e ad avere un senso, dopo l'interruzione dell'89, soprattutto perla sua funzione comunicativa e produttrice di conoscenza e coscienza storica. La sfilata riproponente il ciclo della semina appare, pertanto, nella sua dimensione memoriale, non una rappresentazione nostalgica di un mondo passato che non c'è più, ma una rievocazione scenica di tante storie individuali e, nello stesso tempo, una vera e propria testimonianza documentaria che, contestualizzandosi nella vita stessa dei suoi protagonisti, permette una ricostruzione attendibile di un importante aspetto della cultura materiale e del sistema produttivo agrario del territorio dell'alta Murgia, di cui Gravina fa parte.
Si preparava il tradizionale corteo degli aratori e dei seminatori, che riproponeva a Gravina uno dei cerimoniali carnevaleschi più ricorrenti e diffusi nell'Europa contadina, dalla Grecia alla Spagna, dalla Germania all'Inghilterra, oltre naturalmente all'Italia: la cosiddetta «aratura rituale», consistente nel trascinamento di uno o più aratri per le vie del paese, che riproduceva metaforicamente e in una «dimensione rovesciata» una situazione `normale' della vita quotidiana. Ora, se l'«aratura rituale» costituisce uno dei motivi costanti dei carnevali tradizionali e si riporta indubbiamente ad antichissimi modelli, ogni specifica «sfilata di aratri» deve, però, essere letta – tenendo anche conto degli elementi di recente formazione ed immissione – all'interno del suo contesto storico e sociale, nel quale trova motivazioni e ragioni, evitando così ipotesi esplicative generiche, in base a presunte, primitive, astratte e generalizzate esigenze di propiziazione e di fecondità della terra, che si potrebbe essere tentati di formulare per la suggestiva eredità di approcci interpretativi trasmessa, a chi si occupa di folklore, da certa antropologia di fine Ottocento attraverso soprattutto la lettura del Ramo d'oro di J.G. Frazer.
A Gravina, dunque, il corteo mascherato tendeva in maniera specifica a riprodurre fedelmente, su fittizie coordinate spaziali e temporali, le diverse fasi del ciclo della semina, rappresentandone metaforicamente gli atti, le situazioni, gli uomini, gli animali, gli attrezzi, in una sorta di museo vivente dotato di forte carica suggestiva e di notevole valore comunicativo, rafforzato dalla teatralità dei gesti e dalla immedesimazione nella parte dei protagonisti, attori in fondo di sé stessi. Il corteo era aperto e guidato dal «massaro», quasi sempre Domenico Olivieri, 57 anni, organizzatore riconosciuto della mascherata per diritto familiare (prima di lui ad organizzarla era il padre, e prima ancora il nonno) e per particolare competenza nell'uso degli attrezzi e nella esecuzione dei lavori, che svolgeva la funzione, proprio come un vero massaro, di sovrintendere, dirigere e controllare gli altri contadini impegnati perché tutto procedesse regolarmente e nel migliore dei modi.
Ognuno aveva un compito specifico, assegnatogli in base alle proprie capacità e conoscenze. Il primo personaggio della sfilata, dopo il massaro, era il misuratore (u cumbassatòre), colui che aveva il compito di delimitare le porche, cioè le fasce di terreno, generalmente larghe tre passi, entro cui si tracciavano parallelamente i solchi, in numero quasi sempre di 18, prima della semina. U cumbassatòre si serviva per questo di una verga lunga appunto tre passi (circa 2 metri e mezzo) e una serie di canne recanti all'estremità due o tre penne di gallina (dette le magnaule), che piazzava ad una distanza di venti-trenta passi l'una dall'altra, in modo da costituire precisi punti di riferimento per la tiratura del solco.
Quest'ultima operazione spettava ad un lavorante chiamato u 'mburcuataure (assolcatore), che guidava un aratro di legno con vomere simmetrico (nelle diverse edizioni della sfilata sono stati usati pressoché indifferente-mente l'aratro a bure lunga e a due tiri, detto arète nustròele, e quello a bure corta e ad un tiro chiamato u segghjòne) trascinato da uno o due muli. All'assolcatore seguivano i seminatori, dotati di una bisaccia e generalmente col viso coperto da un passamontagna, che spandevano nelle strade attraversate, secondo la tecnica della semina a spaglio, semi di grano o di orzo (nel passato più spesso si usavano cenere, farina o (tufina»).
Il ciclo era poi `filologicamente' completato da uno o più aratori, che fingevano di ricoprire le sementi sparse, e da un contadino con un mulo, che trascinava un erpice snodato, del tipo «Howard» (chiamato u skurve), avente la funzione metaforica di completare la copertura dei semi ed appaiare il terreno.
Così si concludeva il ciclo della semina, e così erano strutturate le sfilate del martedì grasso che si realizzavano fino ad una trentina di anni fa, pantomime in presa diretta dal vero, in cui i contadini si travestivano da contadini e rappresentavano, simulandole in un apparato scenografico urbano, le azioni e le situazioni che realmente vivevano in campagna, in un gioco strano in cui ciascuno era praticamente il doppio di sé stesso. Le sfilate organizzate dall'84 all'88, invece, oltre ad inglobare il corteo funebre, un tempo autonomo, che accompagnava il fantoccio di Carnevale – costituito, secondo la tradizione gravinese, prevalentemente da donne vestite di nero con funzione di lamentatrici -, erano arric-chite variamente da altre figure lavorative ed altri strumenti, estranei al ciclo della semina: ad esempio, attrezzi usati nei vigneti, traini, oggetti pastorali, utensili domestici.
Il tutto a scopo dimostrativo, «per far vedere», mi ha detto Domenico Olivieri, perché le giovani generazioni conoscano gli strumenti, le tecniche, le strutture e le modalità di vita del passato e prendano coscienza delle loro radici culturali. La mascherata ha assunto così il senso di una rievocazione scenica delle attività agricole scomparse e, in genere, di un sistema di vita e di produzione ormai superato e vivo solo nella memoria di chi lo ha diretta-mente conosciuto e sperimentato.Pertanto, ]'«aratura rituale» del Carnevale gravinese ha perso totalmente, se in realtà mai li ha avuti, i suoi agganci significanti con le cerimonie d'inizio d'anno legate all'auspicato regolare avvicendamento dei cicli produttivi, così come non è più leggibile semplicemente alla stregua di una tipica componente del classico e carnevalesco.
Qui sotto: la delimitazione delle porche» (19861).«mondo alla rovescia», ed è invece divenuta essenzialmente una rappresentazione memoriale, che utilizza per la sua organizzazione e il suo svolgimento tutti i meccanismi di scelta, selezione e trasmissione propri della memoria come atto di ricostruzione e ricomposizione delle esperienze passate in un insieme strutturato comunicabile e usufruibile in funzione sociale. Il corteo si concludeva, secondo la tradizione, in piazza della Repubblica dove, ad imitazione di quanto avveniva nelle masserie a fine giornata, il «massaro» mostrava una grossa caldaia di pancotto, che veniva distribuito tra i vari lavoratori come giusta ricompensa e legittimo sostentamento per il lavoro svolto e la fatica sopportata.
L'essenza della sfilata gravinese degli aratori e dei seminatori degli anni Ottanta, al di là di quelli che si potrebbero considerare i suoi significati originari, sta sostanzialmente nella identificazione con i suoi protagonisti, tutte persone «serie e stabili», come mi ha puntualizzato Domenico Olivieri, persone «adattate», cioè pratiche del mestiere e consapevoli del loro ruolo paradigmatico ed esemplificativo di una situazione realmente vissuta e con-vinti di essere portatori di una tradizione che è espressione autentica di una «antichità storica», secondo un'espressione dello stesso Olivieri, da conservare e tra-smettere. E probabilmente quel Carnevale fa parte proprio della storia individuale di quel gruppo di contadini, oltre che di una storia più ampiamente e genericamente collettiva.
Ed in questa identificazione, a mio avviso, sta la forza trainante di un cerimoniale che costituisce per i suoi protagonisti un concreto referente per la riaffermazione di una specifica identità culturale e che può continuare ad esistere e ad avere un senso, dopo l'interruzione dell'89, soprattutto perla sua funzione comunicativa e produttrice di conoscenza e coscienza storica. La sfilata riproponente il ciclo della semina appare, pertanto, nella sua dimensione memoriale, non una rappresentazione nostalgica di un mondo passato che non c'è più, ma una rievocazione scenica di tante storie individuali e, nello stesso tempo, una vera e propria testimonianza documentaria che, contestualizzandosi nella vita stessa dei suoi protagonisti, permette una ricostruzione attendibile di un importante aspetto della cultura materiale e del sistema produttivo agrario del territorio dell'alta Murgia, di cui Gravina fa parte.