Passeggiando con la storia
Il mito nell’iconografia funeraria delle necropoli Gravina/Botromagno
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 28 novembre 2024
E' il titolo di un pubblicazione curata da: Marina Castoldi, Alessandro Pace, Claudia Lambrugo, Elisa Conca, Vincenzo Ferrari, Francesca Gallazzi, Agnese Lojacono, Ilaria Pulinetti, dell'Università degli Studi di Milano e de l' Université de Fribourg. "La città peuceta di Silbìon/Sidion, poi Silvium in età romana, sorgeva su di un vasto plateau collinare collocato a dominio della sponda destra del torrente Gravina, nella località attualmente denominata Botromagno. Le principali aree di necropoli erano collocate ai piedi del rilievo, nelle moderne contrade di Padre Eterno e Santo Stefano, entrambe situate su un pianoro strapiombante sulla sottostante gravina. Diversi interventi di scavo effettuati nel corso del tempo da parte della Soprintendenza della Puglia hanno consentito di documentare centinaia di sepolcreti. Il tantissimo materiale a disposizione è ancora praticamente del tutto inedito e solo di alcune tombe si ha notizia nel volume Silbion, una città tra Greci e Indigeni edito a cura di Angela Ciancio.
L'Università degli Studi di Milano, già presente nel nostro territorio dal 2009 con la missione di scavo nel sito indigeno ellenizzato di Jazzo Fornasiello (Gravina in Puglia, BA), ha iniziato un progetto, sotto la direzione scientifica della prof.ssa Marina Castoldi e coordinato dal dott. Alessandro Pace, riguardante il riordino e lo studio dei materiali provenienti dalle necropoli gravinesi, con l'obiettivo di ricostruire le dinamiche sociali che animarono la comunità peuceta di Silbìon/Sidion dal periodo arcaico sino alla conquista romana del 306 a.C.
Data la grande mole di materiale archeologico a disposizione si è deciso di approcciare lo studio delle necropoli da un punto di vista topografico, iniziando dal sepolcreto situato in località Santo Stefano, collocato a Sud-Est rispetto alla collina di Botromagno. In quest'area sono stati effettuati negli anni Novanta del '900 numerosi interventi di scavo (Progetto SIDIN 1991-1996) che miravano anche alla creazione di un parco archeologico; gli scavi sono stati effettuati non in maniera estensiva ma con degli ampi saggi, che hanno portato alla luce circa un centinaio di tombe di varia tipologia, dalla tomba a fossa con controfossa a quella a camera.
L'area necropolare di Santo Stefano è inoltre particolarmente interessante perché permette di affrontare questioni legate anche alla topografia funeraria e alla ricostruzione del soprassuolo della necropoli; gli scavi hanno infatti individuato numerose evidenze che permettono di ricostruire la presenza infra-sito di numerose strutture da interpretare come semata e naiskoi funerari, come ad esempio ben attestato per le necropoli tarantine. Sono documentate anche strutture come porticati (forse funzionali alle cerimonie funebri?) e una serie di terrazzamenti, oltre che strutture funzionali all'irreggimentazione delle acque.
Nell'ambito dello studio della necropoli di Santo Stefano sono stati coinvolti numerosi laureandi e specializzandi della Cattedra di Archeologia della Magna Grecia dell'Università degli Studi di Milano, già impegnati nello scavo di Jazzo Fornasiello, cui sono stati affidati alcuni lotti sepolcrali e i cui lavori saranno coinvolti a breve in un primo volume dedicato all'analisi di questo settore funerario. Tra le sepolture analizzate spicca la numero 6, una tomba a fossa e controfossa scavata direttamente nel banco roccioso, riutilizzata più volte per far posto a ben tre inumazioni, fatto che ne spiega il ricco corredo - costituito da ben 64 oggetti, soprattutto ma non solo ceramici - frutto quindi di un "agglutinamento" dei materiali avvenuto tra 380 e 320 a.C.
Tra gli oggetti che accompagnavano la deposizione più antica, quella di una donna adulta, si segnala la presenza, accanto a ceramica italiota figurata, di materiale in stile misto, in particolare di un vaso cantaroide, una forma dal significato pregnante. Nell'iconografia dei vasi apuli è infatti spesso la donna che offre la bevanda alcolica al guerriero porgendo proprio il vaso cantaroide, a indicare l'importante ruolo sociale dell'elemento femminile, in questo caso associato al consumo rituale del vino, connesso con le sue implicazioni salvifiche.
Un'espressione di nuova identità, sintesi dell'intreccio di differenti componenti culturali, si riscontra anche nella tomba 99; si tratta di una sepoltura di un maschio adulto, deposto con un ricco corredo di circa 40 pezzi, soprattutto vasi per la preparazione e il consumo del vino, ma anche oggetti metallici - un cinturone, punte di giavellotto e un fascio di spiedi – veri e propri status symbol. Del corredo fanno parte anche due crateri, uno di Gnathia, attribuito al Pittore di Konnakis, e uno a figure rosse del Pittore di Ruvo 512, entrambi con chiari rimandi alla sfera dionisiaca, come suggerito dalla combinazione del tralcio d'edera, presente sul primo, con la figura della Menade presente sul lato A del secondo.
La tomba 28, databile tra il 380 e il 370 a.C., è del tipo a fossa e controfossa; accoglieva un individuo adulto di sesso femminile accompagnato da numerosi oggetti non solo ceramici, come evidenziato dalle nove fibule in ferro e da un pendaglio in ambra. Lo strutturato set potorio che le era stato associato, il cui fulcro erano un cratere e due choes, evidenzia una volta di più lo stretto legame formale e ideologico con il mondo dionisiaco. Il raffinato cratere, accostato alla mano del Pittore di Tarporley, presenta sul lato A un satiro, seduto su un'anfora e con un kantharos in una mano e un tirso nell'altra, e di fronte una menade nell'atto di porgergli una patera con delle offerte, dunque una scena fortemente incentrata sulla ritualità dionisiaca e in particolare al consumo del vino.
Sempre connessi a Dioniso sono i due choes; uno con un pampino e grappoli, l'altro, attribuito al Pittore La Rosiaz, mostra una ragazza in corsa con in mano un'oinochoe. Il chous, nel mondo attico, è una forma vascolare dal forte valore simbolico, ed è dunque interessante trovarlo in Peucezia, certo svuotato dell'originaria valenza, ma comunque legato a doppio filo al valore rituale del consumo della bevanda alcolica. Anche la tomba 46 era del tipo a fossa e controfossa, ma molto probabilmente venne monumentalizzata con un'edicola funeraria del tipo a naiskos. La sepoltura accoglieva i resti di due deposizioni: una donna adulta che venne sepolta in un secondo momento (320 a.C.) rispetto a un'inumazione di un individuo adulto di sesso maschile. (350-340 a.C.).
La presenza di un cinturone e di spiedi nella sepoltura più antica connota l'inumato come una figura di guerriero aristocratico, non estraneo al mondo dei valori legati al simposio, come suggerisce il ricco set potorio in ceramica. Non stupisce che il corredo sia raccolto attorno a un'hydria a figure rosse, attribuita al Pittore di Varrese, sottolineando la necessità di evitare un semplicistico approccio alle forme ceramiche come espressione di gender. Sull'oggetto è rappresentata una scena d'incontro tra due figure, una maschile e l'altra femminile; quest'ultima, stante, tiene in una mano un ramo di mirto, mentre un giovane nudo, seduto sul mantello, porge una patera baccellata ricolma di offerte.
Diversi dettagli pongono l'accento sull'intesa erotica tra i due personaggi e sul legame matrimoniale posto sotto la protezione di Afrodite. La pianta di mirto, in posizione centrale nella composizione figurativa, offre però una seconda chiave di lettura in quanto arbusto strettamente connesso anche a Demetra, al culto dei morti e ai riti iniziatici. La valenza funeraria si aggiunge in questa iconografia a quella erotica completandola: al defunto viene offerto il ramo di mirto che richiama il legame amoroso, ma diventa anche un buon auspicio per una vita beata nell'Aldilà.
Pertinente al primo corredo era probabilmente anche un vaso cantaroide miniaturistico sovraddipinto che presenta su entrambi i lati un riquadro metopale con lepre in corsa, animale associato ad Afrodite, che ribadisce l'importanza del tema all'interno della composizione del corredo e fa da pendant alla scena raffigurata sull'hydria. La seconda inumata era associata a un corredo piuttosto ricco e le forme ceramiche maggiormente attestate sono quelle che evocano il banchetto e il simposio, tra le quali campeggia un cratere apulo a figure rosse. Il tema erotico già presente nel primo corredo è qui ripreso e ampliato con l'aggiunta di due skyphoi di Gnathia del Pittore della Rosa.
Oltre agli elementi dionisiaci, quali il tralcio di vite e il ramo d'edera, tipici nella decorazione della ceramica di Gnathia, sono di particolare interesse gli oggetti rappresentati al centro del vaso, una palla quadripartita ornata con nastri e un alabastron, tutti elementi allusivi alla sfera erotica e a quella matrimoniale. Sempre legata al mondo femminile è la lekanis a figure rosse, attribuita al Gruppo TPS. L'iconografia della protome femminile incorniciata da girali e palmette, presente su questo vaso, è uno dei temi maggiormente ricorrenti nella produzione dell'Apulo Tardo. Queste teste femminili, come quelle rappresentate sui colli dei grandi vasi decorati, in mancanza di attributi specifici differenti, possono essere interpretate come Afroditi, visto il legame della dea con la natura in fiore.
Indipendentemente dall'identificazione del personaggio, è possibile connettere questo tema con le credenze ultraterrene e con l'augurio di rinascita in quell'Aldilà fiorito e beato cui aspirava il defunto. Infine, il cratere a campana apulo del Pittore di Würzburg 853, che presenta un corteggio con una menade e un satiro, introduce all'interno del sistema iconografico del corredo alcuni elementi dionisiaci. La scena, ambientata all'interno di una cornice naturalistica, offre un intreccio di temi dionisiaci ed erotici, come spesso accade nella ceramica apula. L'ultima sepoltura analizzata in questa sede è la 41, sempre del tipo a fossa e controfossa, databile tra il 340 e il 320 a.C.; apparteneva verosimilmente a un maschio adulto accompagnato da giavellotti, spiedi, uno strigile in ferro e una grattugia in bronzo, tutti elementi denotanti l'adesione agli ideali aristocratici, centrati sul mondo della guerra, del banchetto e del simposio.
Il defunto era poi accompagnato da un articolato corredo ceramico, disposto sia esternamente che internamente alla sepoltura; sopra il lastrone di chiusura della tomba vennero lasciate numerose forme ceramiche per contenere e versare liquidi (un'hydria, una oinochoe e un'anfora a figure rosse) da interpretare verosimilmente come il risultato delle cerimonie (choai) effettuate dai congiunti al momento della chiusura definitiva della sepoltura. Che siano stati deposti dentro o fuori la tomba gli oggetti figurati sono comunque accomunati dalla presenza di Eros, accompagnato da specchio e dalla ghirlanda e spesso associato alla vite e all'edera, che permettono una volta di più di evidenziare la doppia valenza di Eros, teso tra allusione erotica e valore salvifico.
I materiali dalla necropoli in località Santo Stefano a Gravina in Puglia qui presentanti pur nella loro semplicità iconografica e simbolica permettono comunque di apprezzare il carattere sincretistico della società peuceta di IV sec a.C., frutto dell'intreccio di istanze allogene compenetratesi con le tradizioni indigene. La grande diffusione delle figure di Dioniso, Afrodite ed Eros, non va semplicisticamente interpretata come una prona adesione alle credenze provenienti dalla Grecia, ma piuttosto come di una interpretatio locale sollecitata da una diversa sensibilità e da particolari esigenze cultuali. Lo stesso si può dire anche del consumo del vino, la cui centralità ideologica nei corredi funebri, è spia di una "indigenizzazione" della pratica simposiale, piuttosto che un mero appiattimento rispetto a una "moda" d'importazione".
L'Università degli Studi di Milano, già presente nel nostro territorio dal 2009 con la missione di scavo nel sito indigeno ellenizzato di Jazzo Fornasiello (Gravina in Puglia, BA), ha iniziato un progetto, sotto la direzione scientifica della prof.ssa Marina Castoldi e coordinato dal dott. Alessandro Pace, riguardante il riordino e lo studio dei materiali provenienti dalle necropoli gravinesi, con l'obiettivo di ricostruire le dinamiche sociali che animarono la comunità peuceta di Silbìon/Sidion dal periodo arcaico sino alla conquista romana del 306 a.C.
Data la grande mole di materiale archeologico a disposizione si è deciso di approcciare lo studio delle necropoli da un punto di vista topografico, iniziando dal sepolcreto situato in località Santo Stefano, collocato a Sud-Est rispetto alla collina di Botromagno. In quest'area sono stati effettuati negli anni Novanta del '900 numerosi interventi di scavo (Progetto SIDIN 1991-1996) che miravano anche alla creazione di un parco archeologico; gli scavi sono stati effettuati non in maniera estensiva ma con degli ampi saggi, che hanno portato alla luce circa un centinaio di tombe di varia tipologia, dalla tomba a fossa con controfossa a quella a camera.
L'area necropolare di Santo Stefano è inoltre particolarmente interessante perché permette di affrontare questioni legate anche alla topografia funeraria e alla ricostruzione del soprassuolo della necropoli; gli scavi hanno infatti individuato numerose evidenze che permettono di ricostruire la presenza infra-sito di numerose strutture da interpretare come semata e naiskoi funerari, come ad esempio ben attestato per le necropoli tarantine. Sono documentate anche strutture come porticati (forse funzionali alle cerimonie funebri?) e una serie di terrazzamenti, oltre che strutture funzionali all'irreggimentazione delle acque.
Nell'ambito dello studio della necropoli di Santo Stefano sono stati coinvolti numerosi laureandi e specializzandi della Cattedra di Archeologia della Magna Grecia dell'Università degli Studi di Milano, già impegnati nello scavo di Jazzo Fornasiello, cui sono stati affidati alcuni lotti sepolcrali e i cui lavori saranno coinvolti a breve in un primo volume dedicato all'analisi di questo settore funerario. Tra le sepolture analizzate spicca la numero 6, una tomba a fossa e controfossa scavata direttamente nel banco roccioso, riutilizzata più volte per far posto a ben tre inumazioni, fatto che ne spiega il ricco corredo - costituito da ben 64 oggetti, soprattutto ma non solo ceramici - frutto quindi di un "agglutinamento" dei materiali avvenuto tra 380 e 320 a.C.
Tra gli oggetti che accompagnavano la deposizione più antica, quella di una donna adulta, si segnala la presenza, accanto a ceramica italiota figurata, di materiale in stile misto, in particolare di un vaso cantaroide, una forma dal significato pregnante. Nell'iconografia dei vasi apuli è infatti spesso la donna che offre la bevanda alcolica al guerriero porgendo proprio il vaso cantaroide, a indicare l'importante ruolo sociale dell'elemento femminile, in questo caso associato al consumo rituale del vino, connesso con le sue implicazioni salvifiche.
Un'espressione di nuova identità, sintesi dell'intreccio di differenti componenti culturali, si riscontra anche nella tomba 99; si tratta di una sepoltura di un maschio adulto, deposto con un ricco corredo di circa 40 pezzi, soprattutto vasi per la preparazione e il consumo del vino, ma anche oggetti metallici - un cinturone, punte di giavellotto e un fascio di spiedi – veri e propri status symbol. Del corredo fanno parte anche due crateri, uno di Gnathia, attribuito al Pittore di Konnakis, e uno a figure rosse del Pittore di Ruvo 512, entrambi con chiari rimandi alla sfera dionisiaca, come suggerito dalla combinazione del tralcio d'edera, presente sul primo, con la figura della Menade presente sul lato A del secondo.
La tomba 28, databile tra il 380 e il 370 a.C., è del tipo a fossa e controfossa; accoglieva un individuo adulto di sesso femminile accompagnato da numerosi oggetti non solo ceramici, come evidenziato dalle nove fibule in ferro e da un pendaglio in ambra. Lo strutturato set potorio che le era stato associato, il cui fulcro erano un cratere e due choes, evidenzia una volta di più lo stretto legame formale e ideologico con il mondo dionisiaco. Il raffinato cratere, accostato alla mano del Pittore di Tarporley, presenta sul lato A un satiro, seduto su un'anfora e con un kantharos in una mano e un tirso nell'altra, e di fronte una menade nell'atto di porgergli una patera con delle offerte, dunque una scena fortemente incentrata sulla ritualità dionisiaca e in particolare al consumo del vino.
Sempre connessi a Dioniso sono i due choes; uno con un pampino e grappoli, l'altro, attribuito al Pittore La Rosiaz, mostra una ragazza in corsa con in mano un'oinochoe. Il chous, nel mondo attico, è una forma vascolare dal forte valore simbolico, ed è dunque interessante trovarlo in Peucezia, certo svuotato dell'originaria valenza, ma comunque legato a doppio filo al valore rituale del consumo della bevanda alcolica. Anche la tomba 46 era del tipo a fossa e controfossa, ma molto probabilmente venne monumentalizzata con un'edicola funeraria del tipo a naiskos. La sepoltura accoglieva i resti di due deposizioni: una donna adulta che venne sepolta in un secondo momento (320 a.C.) rispetto a un'inumazione di un individuo adulto di sesso maschile. (350-340 a.C.).
La presenza di un cinturone e di spiedi nella sepoltura più antica connota l'inumato come una figura di guerriero aristocratico, non estraneo al mondo dei valori legati al simposio, come suggerisce il ricco set potorio in ceramica. Non stupisce che il corredo sia raccolto attorno a un'hydria a figure rosse, attribuita al Pittore di Varrese, sottolineando la necessità di evitare un semplicistico approccio alle forme ceramiche come espressione di gender. Sull'oggetto è rappresentata una scena d'incontro tra due figure, una maschile e l'altra femminile; quest'ultima, stante, tiene in una mano un ramo di mirto, mentre un giovane nudo, seduto sul mantello, porge una patera baccellata ricolma di offerte.
Diversi dettagli pongono l'accento sull'intesa erotica tra i due personaggi e sul legame matrimoniale posto sotto la protezione di Afrodite. La pianta di mirto, in posizione centrale nella composizione figurativa, offre però una seconda chiave di lettura in quanto arbusto strettamente connesso anche a Demetra, al culto dei morti e ai riti iniziatici. La valenza funeraria si aggiunge in questa iconografia a quella erotica completandola: al defunto viene offerto il ramo di mirto che richiama il legame amoroso, ma diventa anche un buon auspicio per una vita beata nell'Aldilà.
Pertinente al primo corredo era probabilmente anche un vaso cantaroide miniaturistico sovraddipinto che presenta su entrambi i lati un riquadro metopale con lepre in corsa, animale associato ad Afrodite, che ribadisce l'importanza del tema all'interno della composizione del corredo e fa da pendant alla scena raffigurata sull'hydria. La seconda inumata era associata a un corredo piuttosto ricco e le forme ceramiche maggiormente attestate sono quelle che evocano il banchetto e il simposio, tra le quali campeggia un cratere apulo a figure rosse. Il tema erotico già presente nel primo corredo è qui ripreso e ampliato con l'aggiunta di due skyphoi di Gnathia del Pittore della Rosa.
Oltre agli elementi dionisiaci, quali il tralcio di vite e il ramo d'edera, tipici nella decorazione della ceramica di Gnathia, sono di particolare interesse gli oggetti rappresentati al centro del vaso, una palla quadripartita ornata con nastri e un alabastron, tutti elementi allusivi alla sfera erotica e a quella matrimoniale. Sempre legata al mondo femminile è la lekanis a figure rosse, attribuita al Gruppo TPS. L'iconografia della protome femminile incorniciata da girali e palmette, presente su questo vaso, è uno dei temi maggiormente ricorrenti nella produzione dell'Apulo Tardo. Queste teste femminili, come quelle rappresentate sui colli dei grandi vasi decorati, in mancanza di attributi specifici differenti, possono essere interpretate come Afroditi, visto il legame della dea con la natura in fiore.
Indipendentemente dall'identificazione del personaggio, è possibile connettere questo tema con le credenze ultraterrene e con l'augurio di rinascita in quell'Aldilà fiorito e beato cui aspirava il defunto. Infine, il cratere a campana apulo del Pittore di Würzburg 853, che presenta un corteggio con una menade e un satiro, introduce all'interno del sistema iconografico del corredo alcuni elementi dionisiaci. La scena, ambientata all'interno di una cornice naturalistica, offre un intreccio di temi dionisiaci ed erotici, come spesso accade nella ceramica apula. L'ultima sepoltura analizzata in questa sede è la 41, sempre del tipo a fossa e controfossa, databile tra il 340 e il 320 a.C.; apparteneva verosimilmente a un maschio adulto accompagnato da giavellotti, spiedi, uno strigile in ferro e una grattugia in bronzo, tutti elementi denotanti l'adesione agli ideali aristocratici, centrati sul mondo della guerra, del banchetto e del simposio.
Il defunto era poi accompagnato da un articolato corredo ceramico, disposto sia esternamente che internamente alla sepoltura; sopra il lastrone di chiusura della tomba vennero lasciate numerose forme ceramiche per contenere e versare liquidi (un'hydria, una oinochoe e un'anfora a figure rosse) da interpretare verosimilmente come il risultato delle cerimonie (choai) effettuate dai congiunti al momento della chiusura definitiva della sepoltura. Che siano stati deposti dentro o fuori la tomba gli oggetti figurati sono comunque accomunati dalla presenza di Eros, accompagnato da specchio e dalla ghirlanda e spesso associato alla vite e all'edera, che permettono una volta di più di evidenziare la doppia valenza di Eros, teso tra allusione erotica e valore salvifico.
I materiali dalla necropoli in località Santo Stefano a Gravina in Puglia qui presentanti pur nella loro semplicità iconografica e simbolica permettono comunque di apprezzare il carattere sincretistico della società peuceta di IV sec a.C., frutto dell'intreccio di istanze allogene compenetratesi con le tradizioni indigene. La grande diffusione delle figure di Dioniso, Afrodite ed Eros, non va semplicisticamente interpretata come una prona adesione alle credenze provenienti dalla Grecia, ma piuttosto come di una interpretatio locale sollecitata da una diversa sensibilità e da particolari esigenze cultuali. Lo stesso si può dire anche del consumo del vino, la cui centralità ideologica nei corredi funebri, è spia di una "indigenizzazione" della pratica simposiale, piuttosto che un mero appiattimento rispetto a una "moda" d'importazione".