Passeggiando con la storia
La festa di Coluni a Gravina
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 9 settembre 2021
0.17
Coluni, una contrada in agro di Gravina, a circa tre chilometri dal nostro centro abitato, dove, secondo quanto scrive Giuseppe Lucatuorto nel suo Gravina e il mito di Coluni, intorno agli anni 1535 – 1536, si insediò una piccola comunità di frati cappuccini, che costruirono un piccolo convento per opera del Duca della città, mentre era vescovo mons. Luca de Rinaldis, cui si deve la costruzione della chiesa, dedicata a Santa Maria Altissima. Chiesa ancora esistente, ma sconsacrata e non più aperta al culto. Una chiesa dedicata alla Madonna, che dette origine, secondo le fonti da noi consultate, ad una festa popolare, nel giorno dedicato alla Natività della Vergine, l'8 settembre. Quello che non abbiamo potuto appurare è se questa festa precedette nel tempo, la festa della Madonna delle Grazie, presso l'omonima chiesa, oppure soppiantata quella antica, la festa fu trasferita, fino ai nostri giorni, nella chiesa di Gravina fatta costruire da mons. Vincenzo Giustiniani. Oppure, si svolgeva contestualmente.
Della festa, comunque, che si svolgeva a Coluni, abbiamo trovato una testimonianza riportata da Francesco Mastrogiacomo, nella pubblicazione Gravina e le sue tradizioni, e ripresa da un articolo che lo stesso autore aveva pubblicato in La Voce di Gravina, settembre – ottobre 1967. Però, il Mastrogiacomo non è stato il solo che si è occupato di questo evento. Sotto alcuni aspetti sociologici ed antropologici, partendo dal racconto di Mastrogiacomo, è giusto annoverare Franco Amodio con il suo Santa Dunella vestita di Nero e Franco Laiso, all'interno, sotto forma di capitolo, della pubblicazione Gravina Intersezioni – Interpretazioni.
Scrive il Mastrogiacomo: "E' una piccola festa che dura appena un giorno, l'8 settembre, in onore di Maria vergine, in una contrada della nostra campagna, detta Coluni, intorno ad una piccola chiesa nascosta in un bosco. Di mattina c'è messa alla chiesa, un'unica messa, e tutti si improvvisano scaccini, per amore della Vergine, specie i bimbi che fanno a gara per dare uno strappo, sia pure un piccolo strappo, alla campana, che non ha mati tregua tutto il dì. Ma sono pochi i fedeli del mattino, che gran parte di essi vengono il pomeriggio qui, a piedi, o su piccoli carretti, per trincare allegramente, mangiar polli e frittate in comitiva. Sul nastro della via polverosa quanta gente! Bimbi a piedi, biciclette cariche di fardelli, carretti tirati da asini fiacchi che alla salita chiedono mano alle ruote, villanelle dal capo avvolto in pezzuole multicolori, vecchiette stanche che vogliono vedere per l'ultima volta la madonna, mendicanti, venditori di noccioline e di castagne, e tanti e tanti. E tutti si conoscono e tutti si salutano e filano per l'aria e s'intrecciano motti salaci, botte di spirito, alternati da canti allegri e strette di organini. Si giunge alla chiesetta, si entra così per devozione e si vien subito fuori, senza neppure apprezzare la fatica del sagrestano, che ogni anno ci spende una settimana, per agghindarla e farla bella. Si vien subito fuori, e, certamente, perché fra gli alberi ondeggiano le funi altalenanti che invitano a pendere nel vuoto. E la campana suona, suona sempre, mentre al pozzo stride la catena della vecchia carrucola consumata.
Chi mangia in larga ruota sul sagrato, chi rincorre l'amico che rubò il fiasco, chi ride, chi gioca. La festa è una continua baldoria e si canta e si beve, si balla fin' a sera. Usatissima in questa circostanza è "la pizzica pizzica", un ballo che sta per scomparire, soverchiato anch'esso dalla moda, ma che sussiste nelle abitudini del popolo, specie dei vecchi, che lo eseguono con tutta grazia a suon d'organetto. E' una specie di tarantella che si fa a coppia ed è caratterizzata dalla lontananza in cui si tengono i ballerini, dalle battute di mani che l'accompagnano, dallo strisciarsi intorno fra varie movenze di capo e di piedi, da colpi di fianco che si scambiano ridendo. E' un ballo che mette molto brio in quelli che assistono e che permette ai ballerini larga libertà di movimenti. Il suo nome forse è dovuto al fervore che lo anima".
Della festa, comunque, che si svolgeva a Coluni, abbiamo trovato una testimonianza riportata da Francesco Mastrogiacomo, nella pubblicazione Gravina e le sue tradizioni, e ripresa da un articolo che lo stesso autore aveva pubblicato in La Voce di Gravina, settembre – ottobre 1967. Però, il Mastrogiacomo non è stato il solo che si è occupato di questo evento. Sotto alcuni aspetti sociologici ed antropologici, partendo dal racconto di Mastrogiacomo, è giusto annoverare Franco Amodio con il suo Santa Dunella vestita di Nero e Franco Laiso, all'interno, sotto forma di capitolo, della pubblicazione Gravina Intersezioni – Interpretazioni.
Scrive il Mastrogiacomo: "E' una piccola festa che dura appena un giorno, l'8 settembre, in onore di Maria vergine, in una contrada della nostra campagna, detta Coluni, intorno ad una piccola chiesa nascosta in un bosco. Di mattina c'è messa alla chiesa, un'unica messa, e tutti si improvvisano scaccini, per amore della Vergine, specie i bimbi che fanno a gara per dare uno strappo, sia pure un piccolo strappo, alla campana, che non ha mati tregua tutto il dì. Ma sono pochi i fedeli del mattino, che gran parte di essi vengono il pomeriggio qui, a piedi, o su piccoli carretti, per trincare allegramente, mangiar polli e frittate in comitiva. Sul nastro della via polverosa quanta gente! Bimbi a piedi, biciclette cariche di fardelli, carretti tirati da asini fiacchi che alla salita chiedono mano alle ruote, villanelle dal capo avvolto in pezzuole multicolori, vecchiette stanche che vogliono vedere per l'ultima volta la madonna, mendicanti, venditori di noccioline e di castagne, e tanti e tanti. E tutti si conoscono e tutti si salutano e filano per l'aria e s'intrecciano motti salaci, botte di spirito, alternati da canti allegri e strette di organini. Si giunge alla chiesetta, si entra così per devozione e si vien subito fuori, senza neppure apprezzare la fatica del sagrestano, che ogni anno ci spende una settimana, per agghindarla e farla bella. Si vien subito fuori, e, certamente, perché fra gli alberi ondeggiano le funi altalenanti che invitano a pendere nel vuoto. E la campana suona, suona sempre, mentre al pozzo stride la catena della vecchia carrucola consumata.
Chi mangia in larga ruota sul sagrato, chi rincorre l'amico che rubò il fiasco, chi ride, chi gioca. La festa è una continua baldoria e si canta e si beve, si balla fin' a sera. Usatissima in questa circostanza è "la pizzica pizzica", un ballo che sta per scomparire, soverchiato anch'esso dalla moda, ma che sussiste nelle abitudini del popolo, specie dei vecchi, che lo eseguono con tutta grazia a suon d'organetto. E' una specie di tarantella che si fa a coppia ed è caratterizzata dalla lontananza in cui si tengono i ballerini, dalle battute di mani che l'accompagnano, dallo strisciarsi intorno fra varie movenze di capo e di piedi, da colpi di fianco che si scambiano ridendo. E' un ballo che mette molto brio in quelli che assistono e che permette ai ballerini larga libertà di movimenti. Il suo nome forse è dovuto al fervore che lo anima".