Passeggiando con la storia
La statua processionale del nostro santo Patrono
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 24 settembre 2020
Quella che doveva essere la tradizionale festa patronale, quest'anno, purtroppo, per la contingenza emergenziale della pandemia, ogni rito pubblico, solenne, festoso e festante è stato interdetto. Proprio per questa ragione sono tornato nuovamente, dopo la puntata precedente sul San Michele di Stefano da Putignano, su quello che, per noi gravinesi, ha rappresentato e rappresenterà il massimo punto di coesione cittadina. La festa, comunque, resta solo sul calendario, speriamo per non molto tempo e per questo, al di là del particolare contesto storico, ho deciso di dedicare la puntata odierna sulla statua processionale del nostro Santo Protettore, attingendo da uno studio condotto e pubblicato dalla dottoressa Carmen Morra: "Il culto di San Michele patrono di Gravina tra fede e mito. La statua lignea di San Michele patrono di Gravina e la diffusione dell'iconografia micaelica nella città".
La pregevole statua lignea di San Michele con il lungo mantello rosso sciorinato nel volo precipite sembra riecheggiare le parole di Dante e impersonificare la forza del vento che la sua discesa agli inferi provoca. Di solito, questa statua è posizionata in una nicchia collocata al di sopra di un altare che si trova all'interno della sacrestia della nostra Basilica Cattedrale. Altare che, secondo le fonti consultate dalla studiosa gravinese, frutto di un rimontaggio dello smantellato altare della chiesa di San Michele delle Grotte, avvenuto nel 1723.
Dai documenti conservati nell'Archivio Unico Diocesano di Gravina, sono state riscontrate notizie relative ad un'altra statua dello stesso santo patrono, risalente, però, al 1701. Quella di cui ci stiamo occupando, per la sua fattura, non può essere databile al 1701 in quanto troppo precoce rispetto alle preziose movenze rococò di pieno 700. Considerato, però, che la statua del 1701 non esiste più, l'unica cosa certa, invece, sostenuta dalla Morra, è che nell'attuale nicchia della sacrestia, a mala pena, entra quella processionale. Il che lascia supporre e confermare di una fattura successiva dell'attuale, magari dopo la scomparsa o la distruzione della precedente.
Quindi, la statua del santo patrono fu realizzata prima del 1775 e dopo il 1723 e stilisticamente si può affermare che si tratta di un pregevole esemplare rococò della statuaria napoletana. Questa tesi è confermata se il manufatto lo si comincia ad analizzare partendo dal volto porcellanato passando all'elegante corazza blu tutta punteggiata di oro, al grande cinturone d'argento che fa pendant all'elmo della stessa fattura ed ancora alle strepitose ali tutte d'argento scolpite. Brano davvero raffinato è il gonnellino le cui pieghe sono scompaginate dal vorticoso movimento dell'angelo in volo e mostrano una strepitosa decorazione a pluricolorati mazzetti di fiori, in cui predomina il rosso fuoco che si dispiega in verticale alle spalle del santo.
Come in ogni caso che si rispetti, quando si tratta di studi e di studiosi, le tesi espresse quasi mai coincidono. Siamo di fronte al classico caso. Per avere la conferma è giusto riportare quanto affermato dal professore Francesco De Nicolo, docente presso l'Università di Granada, nella sua relazione: "Esempi di iconografia micaelica nella scultura di Capitanata tra XVII e XIX secolo", svolta a San Severo nel 2019, nel corso di un convegno promosso dal locale Archeoclub.
"Tornando alle nostre sculture mica eliche, vorrei riproporre l'attenzione sul simulacro in legno della sacrestia della della cattedrale di Gravina in Puglia. Recentemente datato a metà Settecento (Morra 2017, p. 289), a mio parere, invece, l'opera va identificata con quella citata in una nota di spesa del 1695 risultando del tutto coerente alla produzione napoletana tardo seicentesca, anche per via della vistosa decorazione a mazzolini di fiori del gonnellino – rilevabile nella produzione di Gaetano Patalano, Vincenzo Ardia e Domenico de Simone – che imitava la contemporanea moda alla "francese", caratterizzata da lusso e raffinatezza degli abiti serici, che si diffuse largamente a Napoli a seguito dell'abolizione, durante il viceregno del Marchese del Carpio, delle restrizioni in tema di orpelli tipici della moda "alla spagnola" (Gaeta 2007, p. 204).
Attribuito a Francesco Antonio Picano (1677 – 1743) da Petrucci (2005, pp. 98 – 100) e accostato dubitativamente a Fumo dalla Gelao (2000, pp. 140 – 141), il San Michele, come emerge dalla nota di spesa di cui ho già accennato, fu acquistato per 52 ducati e grana 52, nel 1695 in concomitanza all'acquisto del busto d'argento di San Filippo Neri, lo stesso simulacro è impreziosito di accessori in argento cesellato: l'elmo piumato, le ali, il cinturone, la spada, i calzari, realizzati da un'argentiere napoletano, chissà in concerto con lo stesso scultore ligneo e forse sotto la direzione di un pittore, come documentato in tanti altri casi nelle botteghe altamente specializzate della Napoli dei Sei-Settecento.
Riguardo l'attribuzione, alla luce di quanto appena detto, in attesa che gli instancabili ricercatori di carte d'archivio possano apportare al dibattito nuova documentazione, ritengo di avanzare come proposta di studio l'accostamento del simulacro alla produzione della bottega di Michele Perrone (1633 – 1693), fratello gemello di Aniello e titolare di una bottega nella quale si formarono Vincenzo Ardia e Domenico de Simone, artefici che si contraddistinsero per un horror vacui nella decorazione dei paludamenti".
Per ultimo e per completare il quadro informativo sull'attribuzione, il professore De Nicolo smentisce e smonta la tesi di chi, in loco e altrove, ha sostenuto che il sacro manufatto fosse opera dello scultore Francesco Antonio Picano. C'è stato, anche, chi, improvvidamente, ha sostenuto che la statua fosse stata realizzata con legno di ciliegio, ma anche questo assunto non viene confermato, anzi sconfessato, data la particolarità di questo materiale legnoso, che non si presta per opere simili.
La pregevole statua lignea di San Michele con il lungo mantello rosso sciorinato nel volo precipite sembra riecheggiare le parole di Dante e impersonificare la forza del vento che la sua discesa agli inferi provoca. Di solito, questa statua è posizionata in una nicchia collocata al di sopra di un altare che si trova all'interno della sacrestia della nostra Basilica Cattedrale. Altare che, secondo le fonti consultate dalla studiosa gravinese, frutto di un rimontaggio dello smantellato altare della chiesa di San Michele delle Grotte, avvenuto nel 1723.
Dai documenti conservati nell'Archivio Unico Diocesano di Gravina, sono state riscontrate notizie relative ad un'altra statua dello stesso santo patrono, risalente, però, al 1701. Quella di cui ci stiamo occupando, per la sua fattura, non può essere databile al 1701 in quanto troppo precoce rispetto alle preziose movenze rococò di pieno 700. Considerato, però, che la statua del 1701 non esiste più, l'unica cosa certa, invece, sostenuta dalla Morra, è che nell'attuale nicchia della sacrestia, a mala pena, entra quella processionale. Il che lascia supporre e confermare di una fattura successiva dell'attuale, magari dopo la scomparsa o la distruzione della precedente.
Quindi, la statua del santo patrono fu realizzata prima del 1775 e dopo il 1723 e stilisticamente si può affermare che si tratta di un pregevole esemplare rococò della statuaria napoletana. Questa tesi è confermata se il manufatto lo si comincia ad analizzare partendo dal volto porcellanato passando all'elegante corazza blu tutta punteggiata di oro, al grande cinturone d'argento che fa pendant all'elmo della stessa fattura ed ancora alle strepitose ali tutte d'argento scolpite. Brano davvero raffinato è il gonnellino le cui pieghe sono scompaginate dal vorticoso movimento dell'angelo in volo e mostrano una strepitosa decorazione a pluricolorati mazzetti di fiori, in cui predomina il rosso fuoco che si dispiega in verticale alle spalle del santo.
Come in ogni caso che si rispetti, quando si tratta di studi e di studiosi, le tesi espresse quasi mai coincidono. Siamo di fronte al classico caso. Per avere la conferma è giusto riportare quanto affermato dal professore Francesco De Nicolo, docente presso l'Università di Granada, nella sua relazione: "Esempi di iconografia micaelica nella scultura di Capitanata tra XVII e XIX secolo", svolta a San Severo nel 2019, nel corso di un convegno promosso dal locale Archeoclub.
"Tornando alle nostre sculture mica eliche, vorrei riproporre l'attenzione sul simulacro in legno della sacrestia della della cattedrale di Gravina in Puglia. Recentemente datato a metà Settecento (Morra 2017, p. 289), a mio parere, invece, l'opera va identificata con quella citata in una nota di spesa del 1695 risultando del tutto coerente alla produzione napoletana tardo seicentesca, anche per via della vistosa decorazione a mazzolini di fiori del gonnellino – rilevabile nella produzione di Gaetano Patalano, Vincenzo Ardia e Domenico de Simone – che imitava la contemporanea moda alla "francese", caratterizzata da lusso e raffinatezza degli abiti serici, che si diffuse largamente a Napoli a seguito dell'abolizione, durante il viceregno del Marchese del Carpio, delle restrizioni in tema di orpelli tipici della moda "alla spagnola" (Gaeta 2007, p. 204).
Attribuito a Francesco Antonio Picano (1677 – 1743) da Petrucci (2005, pp. 98 – 100) e accostato dubitativamente a Fumo dalla Gelao (2000, pp. 140 – 141), il San Michele, come emerge dalla nota di spesa di cui ho già accennato, fu acquistato per 52 ducati e grana 52, nel 1695 in concomitanza all'acquisto del busto d'argento di San Filippo Neri, lo stesso simulacro è impreziosito di accessori in argento cesellato: l'elmo piumato, le ali, il cinturone, la spada, i calzari, realizzati da un'argentiere napoletano, chissà in concerto con lo stesso scultore ligneo e forse sotto la direzione di un pittore, come documentato in tanti altri casi nelle botteghe altamente specializzate della Napoli dei Sei-Settecento.
Riguardo l'attribuzione, alla luce di quanto appena detto, in attesa che gli instancabili ricercatori di carte d'archivio possano apportare al dibattito nuova documentazione, ritengo di avanzare come proposta di studio l'accostamento del simulacro alla produzione della bottega di Michele Perrone (1633 – 1693), fratello gemello di Aniello e titolare di una bottega nella quale si formarono Vincenzo Ardia e Domenico de Simone, artefici che si contraddistinsero per un horror vacui nella decorazione dei paludamenti".
Per ultimo e per completare il quadro informativo sull'attribuzione, il professore De Nicolo smentisce e smonta la tesi di chi, in loco e altrove, ha sostenuto che il sacro manufatto fosse opera dello scultore Francesco Antonio Picano. C'è stato, anche, chi, improvvidamente, ha sostenuto che la statua fosse stata realizzata con legno di ciliegio, ma anche questo assunto non viene confermato, anzi sconfessato, data la particolarità di questo materiale legnoso, che non si presta per opere simili.