Passeggiando con la storia
Una chiesa scomparsa: Santa Maria delle Pupille (conosciuta come Criste de le pupeddre)
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 25 giugno 2020
Era una chiesa, come ci racconta Giuseppe Lucatuorto nel suo libro: Gravina Urbs opulenta, Arti Grafiche Savarese, Bari 1975, che sorgeva fuori le mura, a breve distanza della città, e che di essa è ancora vivo il ricordo, conservato nel toponimo stradale col nome di via Pupilli, l'ultima traversa a sinistra, scendendo per via De Gasperi. Un piccolo luogo sacro che, fin quando ha potuto, ha resistito al "gioco" infelice e perverso delle ruspe selvagge, perché la sua scomparsa, come sostiene Lucatuorto, va addebitata, non al logorio del tempo e al disuso, ma all'ignoranza e all'incuria dei molti responsabili: cittadini, proprietari ed amministratori.
Il cardinale Frà Vincenzo Maria Orsini, nella sua Visita Apostolica del 1714, in data 14 del mese di febbraio di quello stesso anno, cosi la descrisse: "Eretta questa chiesa nel 1656 da tal Giovanni Gramegna sotto il Vescovo Cennini, lunga palmi 17 e ½ e larga palmi 13 e ½, con volto di tufi, è stata dolcemente abbellita dal sacerdote Tommaso Gramegna, figliuolo del Fondatore, e dal medesimo prete (da cui è parimenti conservata), fatta dotare di ducati 220, cioè 100 da tal Donato Antonio Varvara, suo cognato, e 120 da tale Costanza Maria Tota, sua nipote, del cui frutto (salva la Messa, manutenzione, e riparazione della chiesa, e sua suppellettile) ne fa egli celebrare una Messa in ogni Domenica."
Successivamente, il domenicano mons Vincenzo Ferrero, vescovo di Gravina dal 1725 al 1730, nel corso della sua Visita Pastorale, fa di essa la seguente descrizione: "L' altare tiene due pilastri di trofino, che reggono la mensa tutta di un pezzo della stessa pietra, col paliotto di vetro, e dentro lo stipite un 'Cristo sepolto', lavorato di gesso, dipinto a marmoresco, col quadro a cristallo e quattro statuette intere". Per concludere con le parole del Lucatuorto, la chiesa, sulla parete di fondo, almeno fino al 1969, erano visibili alcune immagini di santi, presumibilmente, affrescate, dipinte dal pittore locale Francesco Santulli.
Di questo sacrario distrutto non è rimasto neanche un rudere, non una pietra della memoria, neanche un briciolo di polvere dei ricordi, alla pari di un morto disperso a cui non è stato possibile innalzare nemmeno una tomba su cui pregare, piangere, accendere una lampada votiva o poggiare un fiore. Al di là dei tanti gravinesi dai cuori selvaggi, disumani, un cuore sensibile, il dottore Donato Marvulli, seppe dedicare una delle sue tante e numerose poesie in vernacolo gravinese, Criste de le pupeddre, che io ho raccolto in una pubblicazione del 2003: "Gravina maie".
E' un racconto nostalgico, struggente che, in poche parole, racchiude, sinteticamente ed intimamente, lo stato dei luoghi. L'abbandono, la malinconia per un degrado indescrivibile, irrazionale, descritto con gli occhi del cuore; con il cuore a pezzi, lacrimante, sanguinante, ma pieno, anche, di speranza, pur nella nudità e nella povertà della propria condizione umana. Sentimenti accavallati, confusi tra fede, ansia, paura, solitudine, coraggio, mistero, preghiera. Leggiamola insieme questa lirica, perché ci sia meno solitudine nei nostri cuori e più consapevolezza perche distruggere un monumento, una memoria, la storia è il peccato vigliacco dell'ingratitudine, che grida vendetta al cospetto dei nostri avi, dei nostri progenitori. Di coloro che furono e che avrebbero voluto esserci o furono per rimanere immortali nelle loro opere.
Criste de le pupeddre
Chedda sere trasiebbe inta a na chiese,
na chiese paveredde, totta ascure
na staie nu cùene: niscune. Nu mortòrie
ca te faciaie paure.
Sope all'uniche altère, drete a na povere
lampede ad jugghe, l'Eucaristì:
u reste nan era ca iombre, iombre e mistere
mischète a pecundrì.
Ma inta a chedda chiese paveredde
tu te sentive men de na mendiche,
tu te sentive nu nudde, na scuscigghie,
na ciampe de fermiche.
Ma inta a chedda chiese paveredde
u munee te paraie tante luntane
e femmene, e solde e picce e storie e tutte
nu scecamitizze de chène.
E avisse vulute scettarte sope o gradine,
mmenze a totte ched'ombre ca te strengiaie
e apppagnarte dacchessì, dè sotte all'occhiere
de Criste, ca te guardaie.
Il cardinale Frà Vincenzo Maria Orsini, nella sua Visita Apostolica del 1714, in data 14 del mese di febbraio di quello stesso anno, cosi la descrisse: "Eretta questa chiesa nel 1656 da tal Giovanni Gramegna sotto il Vescovo Cennini, lunga palmi 17 e ½ e larga palmi 13 e ½, con volto di tufi, è stata dolcemente abbellita dal sacerdote Tommaso Gramegna, figliuolo del Fondatore, e dal medesimo prete (da cui è parimenti conservata), fatta dotare di ducati 220, cioè 100 da tal Donato Antonio Varvara, suo cognato, e 120 da tale Costanza Maria Tota, sua nipote, del cui frutto (salva la Messa, manutenzione, e riparazione della chiesa, e sua suppellettile) ne fa egli celebrare una Messa in ogni Domenica."
Successivamente, il domenicano mons Vincenzo Ferrero, vescovo di Gravina dal 1725 al 1730, nel corso della sua Visita Pastorale, fa di essa la seguente descrizione: "L' altare tiene due pilastri di trofino, che reggono la mensa tutta di un pezzo della stessa pietra, col paliotto di vetro, e dentro lo stipite un 'Cristo sepolto', lavorato di gesso, dipinto a marmoresco, col quadro a cristallo e quattro statuette intere". Per concludere con le parole del Lucatuorto, la chiesa, sulla parete di fondo, almeno fino al 1969, erano visibili alcune immagini di santi, presumibilmente, affrescate, dipinte dal pittore locale Francesco Santulli.
Di questo sacrario distrutto non è rimasto neanche un rudere, non una pietra della memoria, neanche un briciolo di polvere dei ricordi, alla pari di un morto disperso a cui non è stato possibile innalzare nemmeno una tomba su cui pregare, piangere, accendere una lampada votiva o poggiare un fiore. Al di là dei tanti gravinesi dai cuori selvaggi, disumani, un cuore sensibile, il dottore Donato Marvulli, seppe dedicare una delle sue tante e numerose poesie in vernacolo gravinese, Criste de le pupeddre, che io ho raccolto in una pubblicazione del 2003: "Gravina maie".
E' un racconto nostalgico, struggente che, in poche parole, racchiude, sinteticamente ed intimamente, lo stato dei luoghi. L'abbandono, la malinconia per un degrado indescrivibile, irrazionale, descritto con gli occhi del cuore; con il cuore a pezzi, lacrimante, sanguinante, ma pieno, anche, di speranza, pur nella nudità e nella povertà della propria condizione umana. Sentimenti accavallati, confusi tra fede, ansia, paura, solitudine, coraggio, mistero, preghiera. Leggiamola insieme questa lirica, perché ci sia meno solitudine nei nostri cuori e più consapevolezza perche distruggere un monumento, una memoria, la storia è il peccato vigliacco dell'ingratitudine, che grida vendetta al cospetto dei nostri avi, dei nostri progenitori. Di coloro che furono e che avrebbero voluto esserci o furono per rimanere immortali nelle loro opere.
Criste de le pupeddre
Chedda sere trasiebbe inta a na chiese,
na chiese paveredde, totta ascure
na staie nu cùene: niscune. Nu mortòrie
ca te faciaie paure.
Sope all'uniche altère, drete a na povere
lampede ad jugghe, l'Eucaristì:
u reste nan era ca iombre, iombre e mistere
mischète a pecundrì.
Ma inta a chedda chiese paveredde
tu te sentive men de na mendiche,
tu te sentive nu nudde, na scuscigghie,
na ciampe de fermiche.
Ma inta a chedda chiese paveredde
u munee te paraie tante luntane
e femmene, e solde e picce e storie e tutte
nu scecamitizze de chène.
E avisse vulute scettarte sope o gradine,
mmenze a totte ched'ombre ca te strengiaie
e apppagnarte dacchessì, dè sotte all'occhiere
de Criste, ca te guardaie.