Passeggiando con la storia
Il Cristo portacroce sulla facciata sud della Basilica Cattedrale
Rubrica "Passeggiando con la storia" di Giuseppe Massari
giovedì 19 dicembre 2019
Molti sono gli obiettivi fotografici puntati sui nostri monumenti, per coglierne particolari di bellezze, di originalità. Pochi sono gli obiettivi storici, per scorgere sapienza e conoscenza che trasuda da quelle immagini poste, spesso, fuori da ogni immortalizzazione cosciente e da ogni voglia di immagazzinarli all'interno dei nostri bagagli culturali. Uno dei monumenti più trascurati, meno attenzionati, probabilmente, all'acquisizione della nostra cultura, è il Cristo risorto o Cristo portacroce posto, quale elemento decorativo, sul portale laterale del lato sud della nostra Basilica Cattedrale, precisamente alla sommità del timpano.
Fonti storiche più o meno accreditate asseriscono, senza aver mai, purtroppo, fornito elementi certi sulla sua datazione, sulle maestranze che la realizzarono, che quella statua fu collocata dove, ancora, attualmente la si può ammirare, dopo il crollo della torre campanaria avvenuto nel 1558. Cosa abbia di tanto particolare o di tanto fulgido retaggio storico quel manufatto in pietra è presto detto. Replica, modestamente, senza forzature di sorta, senza esagerazione campanilistica e retorica, l'opera che, Metello Vari, nel 1514, commissionò a Michelangelo Buonarroti, per la Basilica di Santa Maria Sopra Minerva, a Roma, retta dai figli di San Domenico, dell'Ordine dei Predicatori, e dove sono custodite le spoglie mortali del nostro concittadino, Papa Benedetto XIII.
A causa di una vena nera rivelatasi sul volto del Cristo durante la lavorazione, lo scultore fu costretto ad abbandonare il marmo per poi donarlo, qualche tempo dopo, allo stesso Vari che lo collocò nel giardino della propria residenza romana dichiarando di conservarla "come suo grandissimo onore, come fosse d'oro". In una sorta di misteriose coincidenze, a distanza di alcuni secoli, esattamente nel 2001, la professoressa Silvia Danesi Squarzina, docente di Storia dell'Arte Moderna all'università La Sapienza, e la sua allieva Irene Baldriga, in occasione della mostra romana sulla collezione d'arte dei Giustiniani, una vena di marmo nero sul volto e documentazioni notarili hanno rivelato che la statua, scolpita da Michelangelo 500 anni fa, è la prima copia del Cristo Portacroce di Santa Maria sopra Minerva a Roma.
Secondo il ricercatore d'arte tedesco Frommel, nel XVII secolo il Marchese Vincenzo Giustiniani affidò la rifinitura della bozza michelangiolesca a Gian Lorenzo Bernini, allora stella nascente della scultura. Per la prima volta nella storia dell'arte, dunque, la stessa opera porterebbe la firma di due geni assoluti di tutti i tempi: Michelangelo e Bernini. «Non ci sono documenti ufficiali - precisa il professor Frommel - ma c'è l'evidenza stilistica. La superficie della statua non può essere di Michelangelo e ci sono tante somiglianze tra quest'opera e quelle giovanili del Bernini. Tutta la storia resta, comunque, avvolta da un alone di mistero». Nel 1644, dopo il completamento dell'opera, il principe Andrea Giustiniani, successore del Marchese Vincenzo, trasferì il Cristo Portacroce nella chiesa-mausoleo di famiglia, a Bassano Romano, dov'è visibile ancora oggi.
Dopo aver ricostruito, per sommi capi, la storia, quasi rocambolesca della statua originale, rifatta, probabilmente rimaneggiata, e completata, è giusto ribadire l'importanza, ancora maggiore, del manufatto gravinese che si inserisce, anche, a pieno titolo nel filone della famiglia Giustiniani, quella legata alla nostra città per la presenza di mons. Vincenzo Giustiniani, vescovo della Diocesi di Gravina dal 1593 al 1614, facendovi costruire, tra l'altro, il primo Seminario vescovile, la chiesa della Madonna delle Grazie, con la maestosa facciata, che riproduce il suo stemma episcopale e la chiesa di Santa Cecilia.
L'opera iniziale, inserita nell'alveo di alterne vicende storiche, finisce col ricollegarsi e ricongiungersi a momenti salienti della nostra vita cittadina religiosa e sacra. Per questi motivi ho ritenuto opportuno riprendere la storia di quella statua, per certi aspetti "gravinese" perche così come è collocata, forse, a molti gravinesi non dice nulla, non ha mai detto nulla. Invece, ha delle coincidenze, come ho cercato di dimostrare tutt'altro trascurabili, segno che dobbiamo porre più attenzione ai nostri monumenti, così come alla incisione, in latino, inserita nella parte posteriore, per la quale, grazie all'amico Antonio Bronzini sono in grado di fornire la traduzione: "Dopo esser morto, ridestandomi dalla tomba, ascesi al cielo e quella che voi chiamate "morte" per me fu la vita".
Fonti storiche più o meno accreditate asseriscono, senza aver mai, purtroppo, fornito elementi certi sulla sua datazione, sulle maestranze che la realizzarono, che quella statua fu collocata dove, ancora, attualmente la si può ammirare, dopo il crollo della torre campanaria avvenuto nel 1558. Cosa abbia di tanto particolare o di tanto fulgido retaggio storico quel manufatto in pietra è presto detto. Replica, modestamente, senza forzature di sorta, senza esagerazione campanilistica e retorica, l'opera che, Metello Vari, nel 1514, commissionò a Michelangelo Buonarroti, per la Basilica di Santa Maria Sopra Minerva, a Roma, retta dai figli di San Domenico, dell'Ordine dei Predicatori, e dove sono custodite le spoglie mortali del nostro concittadino, Papa Benedetto XIII.
A causa di una vena nera rivelatasi sul volto del Cristo durante la lavorazione, lo scultore fu costretto ad abbandonare il marmo per poi donarlo, qualche tempo dopo, allo stesso Vari che lo collocò nel giardino della propria residenza romana dichiarando di conservarla "come suo grandissimo onore, come fosse d'oro". In una sorta di misteriose coincidenze, a distanza di alcuni secoli, esattamente nel 2001, la professoressa Silvia Danesi Squarzina, docente di Storia dell'Arte Moderna all'università La Sapienza, e la sua allieva Irene Baldriga, in occasione della mostra romana sulla collezione d'arte dei Giustiniani, una vena di marmo nero sul volto e documentazioni notarili hanno rivelato che la statua, scolpita da Michelangelo 500 anni fa, è la prima copia del Cristo Portacroce di Santa Maria sopra Minerva a Roma.
Secondo il ricercatore d'arte tedesco Frommel, nel XVII secolo il Marchese Vincenzo Giustiniani affidò la rifinitura della bozza michelangiolesca a Gian Lorenzo Bernini, allora stella nascente della scultura. Per la prima volta nella storia dell'arte, dunque, la stessa opera porterebbe la firma di due geni assoluti di tutti i tempi: Michelangelo e Bernini. «Non ci sono documenti ufficiali - precisa il professor Frommel - ma c'è l'evidenza stilistica. La superficie della statua non può essere di Michelangelo e ci sono tante somiglianze tra quest'opera e quelle giovanili del Bernini. Tutta la storia resta, comunque, avvolta da un alone di mistero». Nel 1644, dopo il completamento dell'opera, il principe Andrea Giustiniani, successore del Marchese Vincenzo, trasferì il Cristo Portacroce nella chiesa-mausoleo di famiglia, a Bassano Romano, dov'è visibile ancora oggi.
Dopo aver ricostruito, per sommi capi, la storia, quasi rocambolesca della statua originale, rifatta, probabilmente rimaneggiata, e completata, è giusto ribadire l'importanza, ancora maggiore, del manufatto gravinese che si inserisce, anche, a pieno titolo nel filone della famiglia Giustiniani, quella legata alla nostra città per la presenza di mons. Vincenzo Giustiniani, vescovo della Diocesi di Gravina dal 1593 al 1614, facendovi costruire, tra l'altro, il primo Seminario vescovile, la chiesa della Madonna delle Grazie, con la maestosa facciata, che riproduce il suo stemma episcopale e la chiesa di Santa Cecilia.
L'opera iniziale, inserita nell'alveo di alterne vicende storiche, finisce col ricollegarsi e ricongiungersi a momenti salienti della nostra vita cittadina religiosa e sacra. Per questi motivi ho ritenuto opportuno riprendere la storia di quella statua, per certi aspetti "gravinese" perche così come è collocata, forse, a molti gravinesi non dice nulla, non ha mai detto nulla. Invece, ha delle coincidenze, come ho cercato di dimostrare tutt'altro trascurabili, segno che dobbiamo porre più attenzione ai nostri monumenti, così come alla incisione, in latino, inserita nella parte posteriore, per la quale, grazie all'amico Antonio Bronzini sono in grado di fornire la traduzione: "Dopo esser morto, ridestandomi dalla tomba, ascesi al cielo e quella che voi chiamate "morte" per me fu la vita".